24.5.11

Poveri e migranti

I pity the poor immigrant
Who wishes he would've stayed home
Who uses all his power to do evil
But in the end is always left so alone
That man whom with his fingers cheats
And who lies with ev'ry breath
Who passionately hates his life
And likewise fears his death.

Ho pietà per il povero immigrato cantava molti anni fa Bob Dylan, che fra l'altro oggi compie 70 anni.

Una canzone che in pochi tratti delinea la figura del migrante come persona in carne ed ossa, spesso marginale, con le sue passioni, miserie e delusioni e tuttavia sempre meritevole di compassione.

"Restiamo umani" è stato l'appello di Vittorio Arrigoni ucciso a Ghaza poche settimane fa, e davvero restare umani sembra un obiettivo ambizioso in tempi in cui le passioni e la compassione viene dispensata a piccole dosi e solo alle persone ritenute "meritevoli".

Ed invece la sfida non è aiutare qualcuno, fare la carità mediante questa o quella istituzione a questo o quel popolo, ma decidere cosa riteniamo essere la base della nostra umanità, sapere cosa sono per noi le cose che non sono negoziabili perché ci definiscono come persone a prescindere dalle nostre doti morali, le nostre abilità ed i nostri meriti.

E poi c'è il secondo filone di riflessione sollecitato dall'accoppiata povero e immigrato. Una accoppiata che nel nostro immaginario è quasi inscindibile: il povero è assai spesso immigrato, gli immigrati sono quasi sempre poveri, almeno secondo i nostri parametri.

Questo perché nella nostra testa non guardiamo al significato tecnico della parola "immigrato" ovvero persona che migra da un paese all'altro per motivi di vita e professionali, percui sarebero immigrate anche le migliaia di persone che si stabiliscono in Italia perché attratti dalle sue bellezze, o i molti professionisti stranieri che lavorano nelle nostre aziende, così come sono migranti i nostri figli che vanno a cercar fortuna all'estero.
Fra l'altro secondo una ricerca della fondazione Migrantes i numeri degli italiani all'estero sono in crescita e ad oggi sono oltre 4 milioni i cittadini italiani che lavorano all'estero registrati all'anagrafe dell'AIRE, quasi quanti sono gli stranieri nel nostro paese.

Ma non è ai primi che pensiamo quando vogliamo parlare di migranti italiani, pensiamo invece alle valige di cartone con cui fino ad un paio di decenni i poveri di tutta Italia partivano per le americhe o il nord europa.

I nostri figli no, non sono migranti per noi, forse perché non vorremmo provassero le stesse difficoltà che ci venivano raccontate nelle storie dell'emigrazione dei nostri padri, o che vediamo nelle strade delle nostre città.

Ma allora cosa è che renderebbe diverso un migrante da uno che lavora all'estero? Il primo elemento è sicuramente l'appartenenza a quello che percepiamo come un altro mondo, di cui non conosciamo codici e meccanismi di funzionamento. Insomma noi ci sentiamo parte di un quartiere del villaggio globale, e non consideriamo emigrazione quei flussi che avvengono all'interno di quel quartiere.

ma sopratutto la povertà: povertà ovviamente per noi, assai spesso infatti i migranti appartengono alla piccola e piccolissima borghesia dei loro paesi e non al popolo più minuto che per formazione e disponibilità economiche non sarebbe mai in grado di tentare la sfida.
La povertà, ancora una volta. E si scrive povertà ma si legge ancora ingiustizia e diseguaglianza.

11.5.11

Uguaglianza e crescita

Nella permanente campagna elettorale vissuta dagli italiani, una delle accuse che ogni tanto vengono mosse da destra verso sinistra è quella dell'egualitarismo, che aspirando a rendere tutti uguali, appiattirebbe la società, privandola delle spinte competititive motrici di progresso.

Visti i percorsi presi dalla storia penso che davvero le proabilità dell'avvento di società egualitare siano modeste, e chi le teme lo fa sopratutto per uso propagandistico, e tuttavia sarebbe utile cogliere l'occasione per mantenere invece bene l'attenzione sulle diseguaglianze, queste si ben presenti in ogni aspetto della nostra vita, e vedere se percaso vale l'assunto opposto, cioè che maggiori diseguaglianze siano motore di sviluppo.

E' un filone di ricerca su cui si sono esercitati in molti in questi ultimi anni, perché nonostante i suoi limiti, la ricerca economica può dire molto di quello che accade nella società.

Certo come acutamente ricordava in un suo celebre discorso Robert Kennedy, "il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l'onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi."

E tuttavia da qualche tempo è sempre più evidente come ci sia un legame fra salute, felicità ed indicatori macroeconomici che misurano la distribuzione della ricchezza in un paese. Ne ho già parlato qui.

Qualche settimana fa è uscita un'altra pubblicazione, questa volta da uno dei templi del capitalismo mondiale, il fondo monetario internazionale, che analizzando crescita e diseguaglianze in diverse aree del mondo, giunge alla conclusione che mentre le diseguaglianze non sono direttamente correlate alla possibilità che ci sia sviluppo, laddove queste siano maggiori lo sviluppo è meno prolungato nel tempo.

Al contrario nei paesi dove le diseguaglianze sono minori o si attenuano si hanno tassi di crescita più prolungati.

Un'altro buon motivo per chiedere ancora una volta maggiore eguaglianza e maggiori diritti per tutti.

6.5.11

Le foto della morte

"They’re selling postcards of the hanging", era l'attacco di Desolation Row una delle più belle canzoni di Bob Dylan. La frase si riferiva all'uso, negli USA degli anni '20, di fare cartoline dalle foto dei linciaggi, episodi ahimè così comuni da essere anche l'oggetto di Strange Fruit, una delle canzoni simbolo della lotta per i diritti civili.

In questi giorni si discute molto delle foto della morte di Osama Bin Laden, ed il dibattito è tutto incentrato sulla opportunità o meno di diffonderle, con il consueto corollario di spiegazioni che vanno dal razionale al fantasioso.

Ma sono le foto il problema? e davvero la cosa più importante è vedere nel dettaglio come sono andate le cose?

L'uccisione di Bin Laden a mio avviso invece ripropone un dilemma antico, quello se sia lecito l'assassinio come forma di soluzione dei problemi, sempre che effettivamente i problemi siano risolti.

E' un tema antico, che interessa destra come sinistra, sufficiente ricordare le riflessioni sul diritto al tirannicidio che hanno attraversato il pensiero politico nei secoli, o ricordare le operazioni coperte di servizi segreti di mezzo mondo, dove la licenza di uccidere diviene qualche cosa in più del titolo di uno dei film della serie 007.

Di questo dovremmo probabilmente discutere. Dovremo discutere se esistono limiti non oltrepassabili mai neanche dalla ragione di stato o da qualche altra ragione.

In molti casi la questione viene risolta pragmaticamente, ricordando come i confini della liceità cambino in caso di guerra, e la guerra al terrore sarebbe una guerra. Ma davvero è una guerra? Perché se così fosse, se è probabile che la morte del nemico sia una delle possibili conseguenze, tuttavia una volta catturato questi avrebbe diritto alla protezione della convenzione di Ginevra, e alla stessa protezione e garanzie giuridiche avrebbero diritto tutti gli altri combattenti.

Invece se si fosse trattato di una operazione di polizia, tesa a catturare un ricercato, diventa cruciale discutere delle modalità e del tipo di incarico che avevano i Seals che si sono calati nel compound di Osama Bin Laden .

Sono temi che probabilmente non interessano al momento molto gli americani, ne del resto sono mai molto popolari gli argomenti che guardano le cose dal punto di vista dei cattivi di turno, e tuttavia è bene parlarne, perché dobbiamo sapere che in molte parti del mondo ci sono persone con licenza di uccidere, e quelle licenze sono firmate anche da noi.

Non mi illudo che sia possibile revocarle, ma almeno chiamare le cose con il loro nome anziché indignarsi per la mancanza di foto di scena si.

4.5.11

Cronaca

E ci sono volte in cui vorremmo essere esonerati dall'avere un'opinione. Liberi dal dover commentare la notizia del giorno, esentati  dall'obbligo di scegliere chi sono i buoni ed i giusti e chi invece da condannare alla dannazione della storia.
Tuttavia le immagini sono la, ed i giornali, e le radio, ed i dubbi, tanti dubbi, tutti a ricordarci quanto poca strada si sia fatta da quando le questioni si risolvevano a colpi di clava.