L’11 febbraio 1990 davanti alla prigione Sudafricana di Pollsmoor erano presenti le testate giornalistiche e le agenzie di mezzo mondo.
Pochi giorni prima infatti il presidente del paese aveva annunciato la prossima liberazione di quello che fino ad allora era considerato il prigioniero politico più famoso al mondo: Nelson Mandela.
Incarcerato per 27 anni, Mandela era divenuto il simbolo della lotta contro la segregazione razziale che era alla base del sistema politico sudafricano del tempo.
Per la sua liberazione negli anni erano stati organizzati concerti e scritte canzoni, e per il superamento della segregazione razziale, l’apartheid, come era chiamato in Sudafrica, le Nazioni Unite avevano sottoposto il paese a sanzioni che andavano dall’embargo al commercio delle armi alla cessazione delle esportazioni di petrolio fino al blocco degli scambi culturali e sportivi.
Molti videro nei pochi passi percorsi da Mandela dal cancello della prigione fino all’auto che lo avrebbe portato a Cape Town, dove poi avrebbe tenuto il primo discorso pubblico dopo 27 anni di prigionia, un altro segnale di un cambiamento positivo, a tre mesi da quell’evento emblematico rappresentato dall’abbattimento del muro di Berlino.
Un segnale reso ancora più positivo per il ruolo che le istituzioni internazionali, dalle Nazioni Unite alla comunità europea avevano avuto nel lungo cammino che pose fine all’apartheid.
Va anche detto che vi era un gran bisogno di storie positive: non era passato troppo tempo dal massacro di piazza Tiennamen, e gli osservatori più attenti stavano seguendo con preoccupazione quanto stava accadendo nella ex Jugoslavia, dove da li a poco sarebbe iniziata la serie di conflitti che avrebbero insanguinato i Balcani per i successivi 10 anni.
Anche la liberazione di Nelson Mandela fu solo un primo timido passo, perché il conflitto fra chi difendeva l’apartheid ed il nuovo Sudafrica non terminò con l’apertura di quel cancello, anzi, i 4 anni che separano quell’11 febbraio dalle prime elezioni democratiche furono anni caratterizzati da quella che fu definita una guerra a bassa intensità, combattuta da milizie private, gruppi tribali, infiltrati dei servizi, fanatici ed i sostenitori del nuovo Sudafrica.
Furono anni duri ma anche pieni di speranze, perché nonostante le stragi nei Balcani, anche sotto agli occhi dei caschi blu dell’ONU, il genocidio in Ruanda e nel Burundi, che si consumava negli stessi mesi in cui Nelson Mandela veniva eletto presidente del Sudafrica, o la guerra del Golfo, combattuta da una coalizione guidata dagli Stati Uniti, pareva evidente a molti il ruolo crescente che le organizzazioni sovranazionali dovevano svolgere nel nuovo contesto nato dalla fine della guerra fredda, e quanto fosse importante affiancare agli sforzi per la composizione dei conflitti, la cooperazione per lo sviluppo, perché la pace può e deve convenire più delle distruzioni portate dalle guerre.
Cosa è rimasto di quella speranza accesa 35 anni fa? Sul piano internazionale pare sempre meno rilevante il ruolo delle Nazioni Unite, prima bellamente ignorate da Russia con la sua invasione dell’Ukraina, e poi prese a picconate dagli Stati Uniti con il blocco dei suoi contributi diretti ed indiretti alle sue agenzie, con il disegno evidente di ridurre la politica internazionale solo al confronto, spesso aspro e muscolare, fra superpotenze.
E paiono brillare sempre meno quei valori che ad esempio avevano dato vita in Sudafrica ad una delle costituzioni più avanzate del XX secolo, con un articolo 9 dedicato all’eguaglianza e che ai primi tre commi dell’articolo 9 recitava:
(1) Tutti sono eguali di fronte alla legge e hanno diritto ad eguale protezione ed eguali benefici da parte della legge.
(2) L’eguaglianza include il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti e di tutte le libertà. Al fine di promuovere il pieno conseguimento dell’eguaglianza, si possono intraprendere misure legislative o altre misure finalizzate alla protezione o alla promozione di individui o di categorie di individui svantaggiati a causa di ingiuste discriminazioni.
(3) Lo stato non può’ porre in essere, in via diretta o indiretta, ingiuste discriminazioni sulla base di uno o più motivi, tra cui razza, genere, sesso, maternità, stato civile, origini etniche o sociali, colore, orientamento sessuale, età, disabilità, religione, coscienza, credo, cultura, lingua o nascita.
Valori scritti nella costituzione sudafricana ma che erano condivisi da donne e uomini di tutto il mondo.
Valori che oggi sembrano invece essere il fumo negli occhi per autocrati, e questo era prevedibile, ma anche per pezzi di elettorato di mezzo mondo, a partire da quelli che hanno portato alla presidenza USA Donald Trump, che non a caso ha azzerato nei suoi primi provvedimenti tutti i programmi del governo statunitense che puntavano a promuovere diversità, inclusione ed eguaglianza.
Ma Trump non si è limitato a smantellare ciò che di buono veniva fatto in casa sua nel corso di più decenni, è bastato poco per vederlo mettere nel mirino anche il resto del mondo.
Particolarmente simbolica la sua minaccia di sanzioni proprio al Sudafrica, colpevole a suo avviso di voler colpire i diritti di proprietà degli agricoltori bianchi.
Simbolica perché la questione della terra costituisce uno degli elementi più complessi del Sudafrica post apartheid, perché il divieto a possedere terra da parte delle popolazione nera fu uno dei pilastri su cui fu costruito il sistema di segregazione razziale, sin dagli anni in cui il Sudafrica dipendeva dalla corona britannica.
Un divieto, quello della riforma agraria del 1913, che assegnava alle comunità nere solo il 7%, poi esteso al 13% delle terre del paese, messo in piedi per consentire ai contadini boeri che erano stati carne da cannone nella guerra anglo boera, di non subire la concorrenza sulle terre da parte della popolazione nera.
Una questione talmente ingarbugliata da non aver trovato ancora una conclusione, per la difficoltà a districarsi fra diritti concorrenti, aspirazioni, paure e speranza collegate alla terra, perché comunità intere furono espropriate delle loro terre ancestrali in virtù di quella legge del 1913 e delle successive leggi che istituirono l’apartheid, e perché un paese non può vivere sul risentimento e senso di ingiustizia.
Una questione ingarbugliata ma che deve essere risolta dai sudafricani, e sui cui l’interventismo di Trump è completamente fuori luogo, perché nella più gentile delle ipotesi è malconsigliato, nella peggiore reagisce d’istinto come tanti bianchi un po’ razzisti fanno di fronte ad un tema che li costringe a confrontarsi con i guasti di una società razzista: negano l’esistenza del problema e gridano al sopruso.
Ma per tornare a quel 11 febbraio 1990. Per tanti anni molti di noi hanno avuto la speranza che la gentilezza ed il metodo di Nelson Mandela, basati su grandi principi morali, fermezza, e disponibilità a confrontarsi con l’avversario, contagiassero positivamente i tanti leader da lui incontrati e segnassero una nuova stagione nelle relazioni fra popoli.
Purtroppo la saldatura fra paure, pensiero reazionario e potere economico andata in scena lo scorso 5 novembre negli Stati Uniti ci ha smentito.
Per citare Antonio Gramsci, è uno di quei momenti in cui, “anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all'opera, ricominciando dall'inizio”