4.9.21

Le tre lauree

 

Ha tre lauree il professore che non vuole vaccinarsi intervistato da Repubblica: "non voglio fare da cavia per il vaccino!" dichiara. La dimostrazione che tre lauree possono aiutare a sapere ma non necessariamente a ragionare. Considerato che ad oggi sono state somministrate oltre 5 miliardi di dosi di vaccini, sospetto che non sia azzardato sostenere che si sappia abbastanza dei vari prodotti e non siano necessarie cavie, nemmeno con tre lauree.

Certo non sappiamo niente degli effetti a lunga scadenza, ma temo che nella storia dell'uomo ci siano state ben poche cose che sono state messe in circolazione dopo aver valutato gli effetti a lunga scadenza, siano queste faramaci miracolosi, mezzi di trasporto, ricette di cucina o itinerari di viaggio... Direi anzi che probabilmente assumersi qualche rischio a lunga scadenza faccia parte della storia dell'uomo.

Ma c'è una seconda cosa che mi colpisce della dichiarazione del professore: considerato che a differenza di tanti prodotti che consumiamo normalmente, la messa in commercio di medicinali richiede anche un periodo di sperimentazione sulle persone, il tono sprezzante verso le "cavie" fa pensare che il docente non abbia troppa considerazione per le tante persone che aiutano a sperimentare la non dannosità ed efficacia dei prodotti che ci cureranno.

Qualche tempo fa una attivista ugandese (se non ricordo male), scriveva di suo padre che aveva partecipato ai programmi che portarono alla messa a punto dei farmaci che hanno poi consentito di contenere l'epidemia di aids e prolungare di molti anni la vita dei malati.

L'attivista raccontava come suo padre fosse cosciente del fatto che forse il farmaco non avrebbe funzionato, o forse solo prolungato di poco la sua vita, ma era lieto di partecipare ad un programma che avrebbe forse aiutato ad affrontare una malattia che stava uccidendo in mezzo mondo.

Personalmente credo che al momento in cui mi sono vaccinato la fase della "cavia" fosse già passata, ma anche se così non fosse, la penso come il padre di quella attivista. Attivista perché la battaglia in cui era impegnata non era quella contro le sperimentazioni dei medicinali in Africa, ma contro i prezzi esorbitanti di quei farmaci, che escludevano dai potenziali benefici proprio coloro che avevano aiutato a verificarne l'affidabilità: come suo padre, che terminato il programma non aveva potuto permettersi la cura.

E se guardiamo la distribuzione dei vaccini nel mondo vediamo che le cose non sono purtroppo cambiate granché

17.4.20

Raccomandazione Numero 1 - Lavarsi spesso le mani

La storia era una di quelle raccontate la sera, quando la piccola comunità espatriata si ritrovava in quel ristorante per condividere qualche particolare del lavoro della settimana.

Mi colpì perché dava il senso immediato di cosa possa significare cercare le soluzioni migliori per tutti: l'organizzazione aveva qualche piccolo fondo per costruire un pozzo e doveva decidere dove fare i test per cercare l'acqua in quella regione abitata da piccole comunità di pastori le cui donne e bambini, come vuole la divisione tradizionale del lavoro in molte parti del mondo, ogni giorno percorrevano i sentieri pietrosi che portavano al wadi per approvigionarsi di acqua melmosa.

L'idea era di cercare l'acqua vicino ad un villaggio, per ridurre il peso dell'approvigionamento per una delle comunità, per poi cercare fondi per altri pozzi per gli altri villaggi, e fu proposta alla prima comunità che rispose chiedendo invece se non fosse possibile invece cercare in una zona mediana fra i vari insediamenti, in modo da fare in modo che i benefici, anche se minori, fossero immediatamente condivisi da più famiglie.

Mi colpì perché la prima proposta avrebbe ridotto al villaggio scelto da due / tre ore a pochi minuti il percorso da fare, con 20 litri d'acqua sulle spalle al rientro, mentre la seconda avrebbe invece significato comunque un percorso di un paio di chilometri. Tuttavia la comunità riteneva che quello fosse già un significativo miglioramento che andava condiviso.

Del resto ricordo come in quegli anni mi capitò fra le mani uno dei tanti documenti che parlavano delle zone rurali di quel paese e che nel evidenziare le problematiche da affrontare sottolineavano come in gran parte del paese l'acqua potabile era disponibile in media a 4/5 km dalla maggioranza degli insediamenti e come fosse da scegliere fra portarla a uno/ due kilometri o a qualche centinaio di metri.

L'obbiettivo dell'acqua in casa non era nemmeno contemplato, non perché non desiderabile, ma perché impossibile da realizzare data la povertà del paese.


Le statistiche ci dicono che oggi quella realtà è ancora la realtà di un pezzo importante della popolazione mondiale, una realtà dove probabilmente il miglioramento più vistoso è stata la sostituzione delle pesantissime brocche di terracotta, che ancora 15 anni fa ho visto usare per il trasporto dell'acqua, con contenitori di plastica, oramai omnipresenti ad ogni latitudine.

E le statistiche ci dicono anche che l'appello a lavarsi le mani spesso, ripetuto in queste settimane fino a quasi lo sfinimento in questi giorni di lockdown da COVID-19 , che per noi ci comporta solo qualche secondo in più da passare in bagno dopo essere rientrati dalla spesa, in tanta parte si trasforma in kilometri e kilometri in più da percorrere ogni giorno.

4.1.20

With out papers

"You wop!" era il modo con cui mi prendevano in giro i miei cugini Usa in una estate lontana passata dai miei nonni a Philadelphia. 

Eravamo piccoli e ben poco sapevamo del significato assai denigratorio assunto dal termine nel corso degli anni, e per altro non ne era ben chiara neppure l'origine.
Una delle spiegazioni circolate nel corso degli anni era legata all'acronimo without papers (senza documenti) che sarebbe stato spesso associato agli italiani arrivati negli USA.  Fino agli inizi del 900 infatti il possesso di un documento uffciale attestante identità e c. non era un requisito necessario per entrare negli USA e a differenza dei meglio strutturati paesi del nord europa, i migranti italiani sopratutto del sud, spesso partivano con poco più della lettera di un famigliare ed i soldi per la traversata, e tenendo ben nascoste eventuali offerte d'impiego perché le norme sull'immigrazione negli USA esigevano che la ricerca di lavoro avvenisse direttamente nel paese e non a distanza.
Quella dei documenti è una spiegazione probabilmente errata, ma la sua semplice esistenza dice molto sulla migrazione italiana e sulla storia delle migrazioni in generale. Vi era chi migrava con tutti i documenti e chi invece no, perché ciò era consentito.
Questo fino alla fine dell'800, quando furono introdotte le prime limitazioni a seguito del diffondersi delle teorie razziste nel paese, teorie che vedevano come insidiosa per il tradizionale ceppo anglossassone la crescente presenza di una immigrazione orientale. E prima con il Page act del 1875 e poi con il Chinese Exclusion Act del 1882 veniva proibita l'immigrazione cinese (va detto che il Page act, che metteva limiti fortissimi all'immigrazione femminile, fu giustificato dalla necessità di bloccare l'arrivo di prostitute dal Celeste Impero, ma ebbe più l'effetto di impedire i ricongiungimenti famigliari che non bloccare i trafficanti di prostitute che spesso avevano i mezzi per pagare i costosissimi visti).

Dal 1892 vennero introdotte ulteriori limitazioni all'insieme dell'immigrazione, con una tassa d'ingresso, le visite mediche, ed il divieto d'ingresso per criminali, instabili di mente, e persone che avrebbero potuto passare a carico della collettività, ma ancora niente richiesta di visti e passaporti...

Il primo grande blocco all'immigrazione, per chi non avesse avuto i caratteri orientali che già dal 1882 impedivano di varcare la frontiera, arriva nel 1924, quando l'opinione pubblica benpensante, preoccupata per l'alterarsi del tradizionale mix anglo-sassone, spinge per ulteriori modifiche alla legge che introducono un criterio di quote, in base alle quali non solo viene limitato il numero di ingressi in cifra assoluta, ma viene anche diviso in modo proporzionale fra i paesi in relazione alle rispettive percentuali di immigrati fra la popolazione già residente. 

Tuttavia è interessante notare come la legge non risucì a bloccare o ridurre ai numeri desiderati l'immigrazione, si aprirono o ampliarono infatti  canali alternativi che passando o dal Canada o dal Messico, permisere l'arrivo di una parte di coloro che non potevano più arrivare attraverso i canali regolari, e la storia dei decenni successivi ci racconta di quanti siano stati gli arrivi irregolari, e se milioni sono stati gli immigrati deportati nel corso degli anni, probabilmente molti di più sono quelli rimasti nel paese, ed i cui figli e nipoti sono oggi a pieno titoli cittadini USA.

Lo storico Richard White, professore alla Stanford University racconta di come scrivendo un libro sulla storia della sua famiglia di immigrati avesse scoperto che il nonno materno era arrivato nel 1936 dall'Irlanda negli Usa in modo irregolare, in quanto non avendo ottenuto il visto per le restrizioni introdotte dalla legge del 1924, era riuscito ad entrare passando dal Canada, aiutato, dopo un primo tentativo abortito alla frontiera, dal cognato poliziotto a Chicago.  E' la storia di un immigrato, ma gli esperti di immigrazione USA sono pronti ad assicurare che molti statunitensi hanno storie simili in famiglia: anche fra quei supporter di Trump che amano raccontare di come i loro antenati fossero arrivati in modo regolare e con tutte le carte in regola.

La lezione che la storia dell'immigrazione USA ci potrebbe dare, se la volessimo ascoltare, è che la legalità o meno dello status dell'immigrato non ha niente a che vedere con la natura delle persone, ma con scelte amministrative, a volte motivate da sentimenti non sempre nobili, come nel caso delle tesi sulla superiorità razziale del ceppo nord europeo che portò alla riduzione dei flussi dal sud europa negli anni 20 del secolo scorso, o i timori per l'immigrazione cinese nella California post corsa all'oro.

Ci potrebbe dire che le motivazioni ad emigrare sono tante, e a volte talmente forti da rendere difficili e progressivamente sempre più costosi gli sforzi di contenimento richiesti da leggi e norme, una verità chiara in un paese come gli USA con le sue due lunghe frontiere con Mexico e Canada, e con i tanti porti ed aereoporti di ingresso da cui arrivano i tanti che si trattengono oltre la durata del visto, ma una verità che dovrebbe essere chiara anche per l'Italia: le politiche di blocco degli sbarchi infatti sono dannatamente costose, e non sempre efficaci, perché una cosa è impedire l'ingresso in porto ad una ONG che ha effettuato dei salvataggi regolari, altra pattugliare le molte possibili rotte di scafisti e c. 

Forse alla lunga regolarizzazioni e procedure di accoglienza potrebbero risultare più agevoli e meno onerose (oltre che più umane).

Questo non significa abdicare, ma cercare di essere pratici e con buon senso, perché se si teme che qualcosa o qualcuno ci possa fare male, è bene sapere dove si trova, e l'illegaltà non è un buon posto dove tenerlo.
E poi chissà che in 30 anni non scopriremo che l'Italia del 2050 sarà prospera ed in grado di dire ancora qualche cosa al mondo perché in questi anni in cui la popolazione giovanile diminuiva drasticamente, ed interi settori produttivi si trovavano senza lavoratori, un po' di gente è arrivata, alcuni in modo regolare, altri arrangiandosi e trovano il modo di regolarizzarsi, come il nonno di quel professore di Stanford.

23.11.19

L'enigma della ragione


E' da tempo che non aggiorno il blog, eppure ne avrei di cose da scrivere, di riflessioni da condividere con amici e conoscenti, di idee da affidare allo sterminato archivio della rete: viviamo in tempi di cattiveria e stupidità, ed è forte la voglia di provare ad argomentare che cattiveria e stupidità possono produrre danni a tutti, compreso i cattivi e gli stupidi. 

Tuttavia non sono andato avanti per la considerazione che troppo spesso quando parliamo ci troviamo a discutere con chi la pensa come noi, ed i nostri ragionamenti servono solo a confermare le nostre opinioni e non a farle cambiare a chi pensiamo debba modificarle. Nella cultura anglosassone esiste l'espressione "preaching to the converted" (predicare ai convertiti) che spiega perfettamente il problema. 

Eppure la ragione dovrebbe servire proprio ad aiutarci a trovare le soluzioni migliori: è quella che ci ha aiutato a diventare quello che siamo, a passare dal piccolo ominide delle savane dell'Africa alla persona in grado di progettare missioni spaziali o più semplicemente macchinari in grado di sostituire l'intervento umano nelle attività più faticose o noiose: dalla lavatrice, all'escavatore a tutto ciò che ci rende la vita così diversa da quella di quell'ominide di tre milioni di anni fa. 

Ma la ragione rimane un enigma, perché se è quella che ci ha consentito a divenire quello che siamo, non ci impedisce di fare cose che alla prova dei fatti si dimostrano stupide, o folli, ed in grado di mettere la vita dell'intero pianeta a rischio.

La considerazione è che se il ragionamento servisse a selezionare le soluzioni migliori, in teoria anche le persone più brillanti e capaci di ragionare dovrebbero avere un vantaggio competitivo nel processo evolutivo, e quindi la propensione del genere umano a fare cose stupide dovrebbe diminuire. Ma sappiamo che non è così, per sintetizzare: anziché estinguersi gli stolti sono sempre numerosi.

Se lo chiedono anche Hugo Mercier e Dan Sperber, nel loro libro "The enigma of reason": perché se la ragione è così affidabile è in grado di produrre scelte profondamente prive di senso? La risposta per gli autori è nel fatto che a differenza di quanto pensiamo, che l'intelligenza e la capacità raziocinante sia una dote finalizzata al progresso individuale, che ci consente di affrontare le difficoltà del mondo che ci circonda, intelligenza e capacità di ragionare sono invece caratteristiche finalizzate all'agire sociale, alla costruzione del gruppo.
La spiegazione di questo enigma potrebbe quindi stare proprio nella frase "preaching to the converted", che non sarebbe un uso distorto del ragionamento ma che invece potrebbe essere proprio la sua funzione: costruire la congregazione.

In sostanza non serve che la proposta/idea/soluzione predicata sia vera o giusta, serve che ci sia un gruppo di convertiti che ci creda, perché a farci diventare quello che siamo oggi non è stata la nostra intelligenza individuale, ma la nostra capacità di operare come gruppo, prima di cacciatori/raccoglitori, impegnati a cacciare animali di grossa taglia e pericolosi, dove la coesione del gruppo è decisiva per il successo, o anche solo la soppravivenza, poi come costruttori di città, in cui per la convivenza, credere nelle stesse cose e avere fiducia del vicino è una condizione assai più importante di polizie ed eserciti.

Percui, per semplificare, la cosa predicata non deve essere vera o giusta, ma utile a tenere assieme la nostra tribù e giustificare a questa le nostre azioni. Si potrebbe dire che in sostanza quando esprimiamo le nostri opinioni cerchiamo più di capire chi la pensa come noi che convincere quelli che hanno una idea diversa. E non ci vuole troppo per capire che è il meccanismo su cui i social network hanno costruito la loro fortuna: i mi piace e il trollaggio ed i meme contro chi non la pensa come noi come forme per dire chi siamo e a quale tribù apparteniamo.

Ed è probabilmente anche ciò che ha contribuito alla nascita di culti, credenze, miti, così come alla diffusione di idee che nessun debunker riuscirà a smentire:

non importa infatti che sia possibile dimostrare che la cosa in cui credo sia vera, importa che possa condividerla con le persone che amo, con cui sto bene o di cui mi fido.

Ed è un sentimento che ci accomuna tutti, dal più sempliciotto al più raffinato intellettuale, perché tutti abbiamo necessità di sentirci parte di un gruppo, che sia una piccola associazione od un grande partito, una setta od una religione planetaria, o anche solo il ristretto gruppo dei nostri famigliari.

In definitiva è il contrario della nota affermazione di Margaret Tatcher "there is no such thing as society. There are individual men and women, and there are families ("non esiste una cosa come la società. Ci sono uomini e donne, e le famiglie").

Tuttavia se è bello scoprire quanto la nostra intelligenza sia sociale, di quanto questo conti nella costruizione del nostro orizzonte ideale, questo non ci aiuta a trovare gli strumenti giusti per parlare a chi fa parte di qualche altro gruppo, anzi, ci dice che probabilmente il ragionamento, nei modi e forme che ci hanno aiutato a costruirci le nostre opinioni, sarà un'arma spuntata per confrontarsi con chi la pensa diversamente, perché non serve tanto ragionare bene, ma capire qual'è il terreno comune all'interno del quale è possibile costruire il discorso.

Insomma è sconsolante constatare come sia difficile confrontarsi, perché quello che accade è che pezzi interi di società vivono e prosperano sulla negazione di un terreno comune e di una comune umanità, ed adesso abbiamo anche la rete che contribuisce a diffondere ed amplificare a velocità crescente le divisioni tribali.

17.7.19

The crossing

Ci trovavamo in Sudafrica oramai da qualche tempo quando un conoscente ci prestò il CD.

Divenne uno dei dischi che ascoltavamo più spesso, forse per le assonanze nel ritornello che assomigliavano così tanto ad una delle quattro parole zulu che mia figlia più piccola aveva appreso all'asilo, o forse per quello che capivamo del testo che parlava di passaggi della vita, traversate, delle tante parole portate via dal vento:

"All the words in truth we have spoken
That the wind has blown away
It's only you that remains with me
Clear as the light of day"


Negli anni successivi, con un po' di malinconia, questo pezzo ha continuato ad essere per me quella casa in Barossa st, a Johannesburg, quel tempo, quel frammento di vita.

Lo so, forse è più significativo e sicuramente conosciuto "Asimbonanga", ma ieri è Johnny Clegg che si è messo in cammino.

"O siyeza, o siyeza, siyagudle lomhlaba
(we are coming, we are coming, we are moving across this earth)
Siyawela lapheshaya lulezontaba ezimnyama
(we are crossing over those dark mountains)
Lapha sobheka phansi konke ukhulupheka"


19.1.18

Cosa amiamo

S. è oramai un amico. Nonostante che ci vediamo raramente e sempre perché qualche impegno istituzionale lo porta dalle mie parti, considero il compito di accompagnarlo per la città uno dei lavori più piacevoli che mi sia stato assegnato.

S. racconta che quando gli fu offerta l'opportunità di studiare dovette discutere in casa, perché la madre aveva bisogno di braccia robuste che l'aiutassero a portare qualche cosa da mangiare a casa. Riuscì a studiare perché la nonna si privò di un pezzo della sua magrissima pensione per aiutarlo.

S. fa il lavoro che fa perché si ricorda delle tante volte che da ragazzo la dispensa era vuota e andò a letto senza cena. Perché si ricorda cosa voglia dire andare a dormire senza sapere se il giorno successivo avrebbe trovato qualche cosa da mangiare a tavola.

L'ultima volta che gli ho parlato mi ha raccontato come ad un incontro con un
gruppo di giovani del suo paese abbia fatto due domande ai partecipanti. E come gliele avesse fatte perché sono domande che si pone lui.

Cosa amiamo, e cosa non ci fa dormire la notte.

Cosa amiamo perché in un mondo dove è sempre più comune discutere di cosa odiamo, e fare lunghe liste di cose e persone che non stimiamo, e magari trasformarle in post sui social network, è sempre più difficile invece capire per cosa vale la pena vivere.

Capire ad esemprio quali sono gli ideali che ci guidano nella vita, quegli ideali per cui, come ebbe a dire Mandela al tribunale che stava per condannarlo all'ergastolo, si vuole vivere per vederli realizzati, ma per i quali si è pronti anche a morire.

Cosa non ci fa dormire la notte, perché il timore di non farcela è sempre li, la paura di non essere adeguati alle necessità, o la disperazione per le possibili conseguenze sulla vita delle persone che da noi dipendono. Il senso insomma delle responsabilità che sentiamo per la nostra comunità.

In tempi di piccoli e grandi odi forse sono queste le domande che dobbiamo tutti porci.

S. è un uomo saggio.

13.12.15

Le sedie e l'ingiustiza

L'occasione era un seminario di sindacati africani, il luogo una città dell'Africa orientale. Era la pausa caffé, quando dopo l'interminabile serie di interventi in plenaria, i vari delegati poterono scambiare quattro chiacchere fra di loro.

Bobby, il facilitatore sudafricano della conferenza era però di un'altra idea, e prese dieci sedie chiamà a raccolta tutti i presenti, chiedendo loro di indicare 10 rappresentanti.

Una volta messe vicino alle sedie  10 persone, iniziò il gioco: "qual'è secondo voi la percentuale di persone veramente ricche in africa" chiese Bobby, e alla risposta "sono il 10%", prese uno dei 10 presenti e lo mise dietro ad una sedia.

Poi chiese quante fossero quelle persone con un lavoro che gli consentiva di mangiare ogni giorno e stare relativamente tranquilli.

"sono il 20%" rispose la sala.

E Bobby tirò fuori altri due dal gruppo. Lasciando da una parte le 7 persone rimanenti, che per la platea corrispondevano al 70% povero.

Poi Bobby passò alla seconda serie di domande: "quanta è la ricchezza del 10%, e quanta del 20% e quanta del 70% della popolazione?" e ottenute le risposte piazzò 7 sedie di fronte al primo, 2 davanti ai secondi, e lasciò la sedia rimanente davanti a tutti gli altri.

"Ed ora sedetevi" ordinò Bob.

Non ricordo se le percentuali della distribuzione della ricchezza in Africa all'epoca fossero davvero quelle rappresentate dalle sedie distribuite da Bobbby, anche se mi pare non fossero troppo distanti, so che la piccola animazione dette bene l'idea della causa dei tanti conflitti di quel continente e non solo di quello.

La questione dell'accesso alle risorse è infatti alla base di tante guerre ed è bene averlo sempre presente.

Ma è un problema che ha un secondo aspetto, altrettanto importante, ed è quello rappresentato dalle 7 sedie con un solo proprietario.

La domanda da porci infatti è se sia giusto un sistema che consenta ad una sola persona di avere una parte così elevata delle risorse del gruppo.

Oramai da molti anni si parla di lotta alla povertà ma è un discorso che accanto a qualche successo, vede anche perpetruarsi se non aumentare quella ingiustizia di fondo. Perché non importa quanto le politiche di cooperazione o gli investimenti possono fare per far crescere i paesi più poveri, ma ci sarà sempre qualcuno, anche in quei paesi, che crescerà di più e che diventerà più ricco prendendosi una parte maggiore di risorse, e questo farà si che per i più poveri rimanga sempre solo una sedia su cui sedersi a turni.

Del resto è abbastanza intuitivo: in un mondo dove per lo sviluppo gioca un ruolo primario la capacità di investire capitali, saranno coloro che hanno capitali da investire a trarre maggiori benefici.

Ed è ancora più intuitivo che tanto maggiore sarà il capitale di partenza, tanto più elevata la capacità di successo e la potenziale remunerazione, con buona pace di tutte le parole spese a sostenere le pari opportunità per valorizzare il talento.

Ed allora la domanda cambia: non sarà che anziché lottare contro la povertà assoluta sarebbe più utile impegnarsi in una lotta alla ricchezza eccessiva?   

Insomma è giusto pensare alla crescita di un paese, ma senza redistribuzione nessuna crescita sarà efficace, e sopratutto giusta.