31.12.11

Deontologia

"E' STATA LA CULONA" titolava il Giornale, a dimostrazione di quanto un passato prestigioso di quotidiano conservatore non garantisca un presente elegante, o forse è lo stesso concetto di elegante ad essersi smarrito fra Arcore e Segrate. 

Ma il titolo che ricordava i più fortunati falsi del Male post '77 pone anche qualche domanda sul presente. 

Pochi giorni fa il presidente dell'ordine dei giornalisti offriva al presidente del Consiglio Mario Monti la tessera onoraria dell'ordine dei giornalisti

Un gesto di cui non sfugge il significato in un momento in cui il tema degli ordini professionali è tornato di attualità. 

In sostanza un bel "presidente si ricordi che abbiamo una funzione preziosa da svolgere", ed a quanto pare il presidente si è mosso, e le indiscrezioni lo danno impegnato a sforbiciare, anche se non tutti sono convinti che direzione e metodo siano quelli giusti. 

Ma davvero serve un ordine che garantisca la deontologia e la professionalità per titolare "E' STATA LA CULONA"?

18.12.11

La lingua dei colonialisti


"Non usare la lingua dei colonialisti" gridava un manifestante, in francese, all'ambasciatore del Senegal, intervenuto, con un discorso in francese, alla manifestazione di commemorazione di Mor Diop e Modou Samb, i due senegalesi assassinati a Firenze il 13 dicembre 2011.

Il manifestante, giovane, biondo, e con barba trasandata con cura, era apparentemente soddisfatto di aver colto in castagna lo speaker, e si agitava con quella indignazione di chi ha avuto il privilegio di poter scegliersi le cause per cui combattere. Un privilegio concesso spesso a noi "caucasici" ed assai meno frequente in altri luoghi, dove sono le circostanze della vita ad imporre alle persone l'impegno politico.

Non credo che l'ambasciatore fosse particolarmente disturbato dal rilievo, che sospetto non abbia neanche sentito, tanto era lontano il contestatore. Ma neanche i tanti senegalesi vicini al giovane parevano  interessati, essendo in quel momento la loro attenzione concentrata sull'ahimé ben più attuale tema della manifestazione.

Tuttavia il modestissimo incidente mi ha dato un certo fastidio, perché vi ho letto un atteggiamento arrogante e presuntuoso, purtroppo a volte presente fra chi guarda al mondo pensando di far del bene.

In primo luogo gli organizzatori avevano chiesto di rispettare il senso della manifestazione, e mettersi ad urlare contro uno degli oratori non è il modo migliore di rispondere all'appello.

Poi la considerazione che è un diritto dei senegalesi di decidere se preferiscono sentire un intervento di un loro concittadino in wolof o in francese e al caso protestare, e non mi pare ci siano state obiezioni, e del resto assieme al wolof, il francese è tuttora lingua ufficiale in Senegal.

Forse il biondo contestatore nella sua furia anticolonialista, si è dimenticato che Frantz Fanon, di cui pochi giorni fa ricorreva il 50 esimo anniversario della morte, e che fu fra i primi a scrivere sui rapporti fra costruzioni culturali e colonialismo, lo fece in francese.

E poi davvero è la lingua solo strumento dell'oppressione coloniale o neo coloniale, o non anche la disponibilità di lingue franche, dal francese all'inglese, dall'arabo allo swaili, uno degli elementi che puà facilitare la ricerca di un terreno comune fra comunità lontane?

Insomma, penso che non siano le lingue ad essere cattive, ma le cose che con queste si dicono, ed è di questo che dobbiamo parlare. Meglio dedicare a miglior causa il proprio furore.

15.12.11

Si ma non chiamiamoli ragazzi

Samb Modou e Diop Mor avevano rispettivamente 40 anni e 54 anni. Nella piena maturità il primo, in una età rispettabile il secondo, per il paese da cui provenivano, dove, secondo la Banca Mondiale, le speranze di vita sono di poco maggiori (60 anni)

Più volte nei commenti di questi ultimi due giorni ho letto di loro come "i giovani" o "i ragazzi senegalesi", forse in un riflesso condizionato che ci vede pensare agli immigrati come giovani appena arrivati, magari sbarcati da qualche barcone, in cerca di fortuna. 

Ed invece non è così, non conosco la storia di Samb Modou e Diop Mor, ma è possibile che siano in Italia da molti anni, come che invece siano emigrati in età più adulta, in cerca di una fortuna negata nel loro paese. 

In alcuni angoli dell'Africa poi il "boy" era l'aiutante locale, che a prescindere dall'età veniva chiamato così dal padrone bianco troppo pigro per imparare i nomi dei suoi dipendenti. 

I bianchi passavano dall'adolescenza alla giovinezza ed alla maturità, i neri erano costretti a rimanere ragazzi a vita. 

Sono certo che molti si riferiscono a "quei ragazzi" nella ricerca di un tono affettuoso verso un'intera comunità presa a colpi di pistola, ma ragazzi non erano, e non chiamiamoli così.

Il sangue nella mia città


la notizia dell'uccisione di Samb Modou e Diop Mor mi è arrivata lontano da Firenze.

E tuttavia la distanza non ne ha diminuito l'impatto, perché è nella mia città che sono morti, sono le pietre di marciapiedi che ho percorso spesso, quelle insanguinate dai due immigrati senegalesi e dagli altri tre feriti dall'assassino in san Lorenzo.

E l'immagine di cosa deve essere stata quella strada, le urla, la gente che corre, e la paura, mi ha accompagnato da quando ho letto la notizia, e mi accompagna ancora.

Perché se la ragione ci dice che ogni morte è una tragedia, ci colpiscono emotivamente gli eventi che incidono su quello spazio che sentiamo come il nostro mondo.

E questa volta è accaduto nella mia città.

11.12.11

il mercato ed i marciapiedi

Quando pensate che sarà superato il mercato?” fu la domanda che si sentirono porre da Lucio Magri I dirigenti del partito comunista iugoslavo nel corso di un incontro con una delegazione del PCI italiano.

Lo racconta Bruno Ugolini in un articolo uscito nei giorni successivi alla scomparsa di Lucio Magri, suicidatosi in Svizzera pochi giorni fa.

Sono passati molti anni da quella domanda, ed oltre a Lucio Magri sono passati anche i partiti comunisti protagonisti di quegli incontri. Ed è passata anche la Iugoslavia, esplodendo e dando il via alle ultime sanguinose guerre europee del XXesimo secolo.

Negli stessi giorni in cui Magri usciva di scena, un articolista del New York Times visitava la Tripoli del dopo Gheddafi e nel suo articolo sottolineava l'animazione caotica dei marciapiedi della città, diventati dei mercati dove si vendeva di tutto, dopo i decenni in cui la rivoluzione verde aveva regolamentato in modo ferreo ogni singolo aspetto della vita quotidiana.

Pare proprio che “il mercato” sia insuperabile: ne ho conferma dal mio punto di osservazione attuale, in un'altro paese ex comunista, l'Albania: i marciapiedi di Tirana sono un brulicare di attività, da venditori di telefonini di dubbia provenienza a contadini che cercano di vendere I loro prodotti. Da cambiavalute a pesciaioli, al venditore di tacchini della foto qua sopra,  tutti a cercare di vendere qualche cosa. Ed ogni fondo di Tirana si è trasformato in un negozio, dal più “upmarket” alla baracca che vende sigarette.

E quante analogie con i marciapiedi e le strade di tanta parte del mondo. A Tripoli come a Johannesburg, a Bankok come a Nairobi.

Un mio amico sudafricano qualche giorno fa mi diceva che il capitalismo è fallito e che è di nuovo il tempo di dare fiducia al socialismo. Gli ho detto che era molto ottimista, e che comunque se è lecito sperare di superare il capitalismo nella sua forma attuale, per il mercato la vedo assai più dura.

Perché se il capitalismo come lo conosciamo è recente, l'intermediazione ha radici assai più profonde e lontane, e le speranze di Magri, e di tanti altri, sono probabilmente destinate a restare disattese.

Già mettere ordine al marciapiede perché nessuno ci inciampi pare essere un obbiettivo assai ambizioso.

4.12.11

Ius soli e la foto della regina in cucina

Janet era una simpatica signora che lavorava nella biblioteca della scuola delle nostre figlie in Sudafrica. Con due figli, separata dal marito ed alle prese con un tumore che si riaffacciava ogni tanto nella sua vita, era sorprendente per energia, ottimismo e voglia di vivere. 

Ma non voglio parlare dei molti modi con cui è possibile affrontare le malattie, ne tantomeno di Janet, purtroppo scomparsa da anni, ma di una foto che aveva nella sua cucina in Blenheim st. a Johannesburg: una delle tante foto della regina Elisabetta II che saluta non si sa chi e non si sa dove. 


Janet ce la mostrò la prima volta che andammo a cena da lei e ridacchiando ci disse che essendo bianca e con sangue inglese, aveva pensato bene di metter quella foto. 

Il fatto che Janet l'avesse piazzata in cucina mi fece immediatamente pensare ad un intento umoristico da parte sua  (non mi farei mai proteggere la cucina da un'inglese ancor meno da una Regina);  ma le sue parole indicavano un elemento assai presente in Sudafrica, e per quanto ne so in molte altre parti del continente, nella comunità di origine inglese: l'elemento della percepita provvisorietà della loro dimensione africana. 

Ben diverso invece l'approccio della comunità bianca afrikaner, i cui legami con il paese d'origine erano quasi inesistenti, tante che venivano ogni tanto definiti "la tribù bianca". Ricordo un altro amico, afrikaner e progressista, che mi diceva: "molti bianchi hanno il doppio passaporto anche se abitano qua da più generazioni, e continuano a guardare a Londra come alla loro capitale: se le cose andranno male lasceranno il paese. Io non ho nessun paese dove andare: sono nato in Sudafrica e questo è il mio paese"

Ripensavo a queste storie in questi giorni leggendo della chiara presa di posizione di Napolitano sulla questione del diritto di cittadinanza. Perché è una questione dalle molte sfaccettature. La prima e più importante è quella della protezione: si scrive cittadinanza ma si legge necessità di essere protetto nelle comunità in cui si vive. 

Essere sudditi di sua maestà probabilmente rassicura molto di più che essere cittadino di qualche autocrazia dei paesi in via di sviluppo, e nonostante le sue singolarità, essere rimpatriati a Londra da meno problemi che fare a ritroso il viaggio attraverso il Sahara o i Balcani. E sono le aspirazioni ed i sogni di chi ha fatto quel viaggio e dei suoi figli che chiedono di essere protette. 

La seconda questione è che parliamo di immigrazioni ma sopratutto parliamo di povertà e delle aspirazioni di chi dalla povertà proviene. 

Anche se sulla povertà è bene indendersi, spesso infatti ad emigrare è la classe media, quella che non riesce a beneficiare a sufficenza del benessere di paesi in via di sviluppo, e sopratutto che per istruzione e competenze pensa di potercela fare, nel nostro immaginario l'equazione è quella immigrato = povero = ulteriori problemi da risolvere. 

Certo non tutti coloro che vivono in un altro paese, rispetto a quello d'origine, sono percepiti come immigrati nell'opinione pubblica: non furono percepite come immigrate quelle comunità straniere che dal 1800 abitarono a Firenze, forti di un cognome inglese, o svizzero o di qualche altro paese portatore di valute pregiate, ad ulteriore dimostrazione della natura economica di tanti pretesi principi mediocri...  

Insomma, il binomio pare essere sempre lo stesso: necessità di uno stato che protegga e difenda i tuoi diritti e aspirazione a migliorare la propria vita. E fa bene Napolitano a ricordare che chi queste cose le ha vissute sin dalla nascita nel nostro paese, ha il diritto di chiedere che sia il nostro paese ad assicurarle. Sono pochi quelli che possono trare beneficio da una foto della regina Elisabetta II appesa in cucina...