26.11.11

Contar le persone: statistiche, pregiudizi ed appartenenze

Quando il 20 ottobre 1998 vennero resi noti i risultati del primo censimento generale della popolazione del Sudafrica realizzato dopo la fine dell'apartheid, l'allora presidente Mandela scoprì di aver perso un paio di milioni di concittadini.

Gli abitanti contati due anni prima, nell'ottobre del 1996 erano infatti poco più di quaranta milioni e mezzo, una cifra distante da alcune proiezioni che vedevano in 42/43 milioni una stima realistica della popolazione del paese per quell'anno.

Non era successo però niente di sinistro, o meglio, non erano state le molte tragiche vicende di quegli anni ad aver ridotto la popolazione: non era stata la guerra a bassa intensità che aveva insanguinato il paese fino a pochi giorni prima delle prime elezioni democratiche del 1994; l'Aids aveva certo già inizato a decimare interi villaggi, ma non era stato questo ad aver influito sulle statistiche; e non erano stati neppure i molti bianchi che avevano lasciato il Sudafrica, non fidandosi di Mandela e del primo governo democratico, e che avevano popolato rancorose comunità espatriate in Australia, nuova Zelanda e Canada.

I due milioni di sudafricani persi semplicemente non erano mai esistiti.

Era successo che negli ultimi anni dell'apartheid le rilevazioni erano divenute sempre meno attendibili per quel che concerneva le zone abitate dai neri, vuoi perché formalmente considerate "indipendenti", vuoi perché inaccessibili ai rilevatori perché teatro degli scontri più violenti. Per questo il conteggio veniva effettuato con foto aeree, ed applicando moltiplicatori al numero di abitazioni fotografate, magari includendo qualche stima basata sul numero di panni stesi fotografati. I moltiplicatori partivano dall'opinione che i tassi di fertilità delle donne africane fossero più che doppi di quelli delle donne bianche.

Quello che gli istituti di statistica non avevano saputo rilevare, forse perché appartenente ad un altro mondo, in quel mondo a parte che caratterizzava l'apartheid, era che nelle comunità nere i tassi di natalità erano calati più delle loro stime, insomma erano calati in misura maggiore di quanto le loro foto aeree fossero in grado di realizzare.

Questa storia delle stime l'ho reincontrata qualche anno dopo in Eritrea, un paese che per le sue vicende storiche non ha aveva effettuato censimenti da molti anni. Il risultato era che la popolazione del paese cambiava da documento a documento ed in relazione alla funzione dello stesso.

E' noto infatti che nel mondo della cooperazione allo sviluppo esiste un criterio di valutazione dell'efficacia dell'aiuto basato sul rapporto fra cifre impiegate e beneficiari, di qui la frequente necessità di stime generose rispetto ai beneficiari potenziali.

Ma pur se più che imperfetti, e tutti sanno che lo sono, i dati servono, e serve una fonte autorevole che ne certifichi la veridicità e la coerenza della metodologia scelta.

Nel caso eritreo le cifre più attendibili erano quelle che il governo aveva fornito partendo dal conto delle abitazioni censite sul territorio del paese, un criterio abbastanza pratico considerato che gli edifici non si muovono, cui erano stati applicati appunto, come alle foto aeree, i moltiplicatori connessi alla dimensione della famiglia media eritrea.

Un criterio che però non poteva contare i morti in guerra, le popolazioni nomadi, gli emigrati e gli scomparsi di cui forse il deserto della libia o il mare di Sicilia conserva ora i resti.

In tutti gli anni in cui sono stato la non ho mai saputo quanti fossero davvero gli eritrei, come non ho mai saputo di quante persone fosse composto l'esercito di quel paese: un esercito che arruolava tutti i giovani che avevano superato i 18 anni, senza distinzioni di sesso, e che in quegli anni ne aveva congedati pochissimi, cosa che in un paese dove si diceva il 50% della popolazione avesse meno di 18 anni avrebbe significato aver arruolato in 9 anni un quarto del paese, una cifra che contrastava invece con i numeri (o stime) che circolavano.

Ma i numeri non servono solo a sapere dove sta il paese nella classifica delle nazioni più popolose, ne tantomeno solo a valutare l'efficacia dei soldi impiegati in progetti di sviluppo. Servono anche ad individuare priorità, percui sono necessarie molte informazioni sull'insieme della vita delle persone che non sempre fa piacere dare.

Il governo sudafricano credo abbia fatto ben poco delle informazioni che nell'ottobre del 1996 ho fornito al rilevatore che venne a suonare alla porta della casa dove abitavo con la mia famiglia a Johannesburg: tranne rilevarci fra i 400mila e passa cittadini stranieri residenti all'epoca in Sudafrica temo di non aver fornito altre informazioni utili per le sue politiche.

Ben più utili saranno state invece le informazioni sulla composizione razziale della povertà e della ricchezza emerse dal chiedere accanto alle notizie sul reddito anche il gruppo razziale d'appartenenza.

Fu un argomento che suscitò molte polemiche allora: fu fatto giustamente notare che la lotta per un nuovo Sudafrica democratico era finalizzata a sbarazzare il Sudafrica una volta per tutte della divisione della società nei gruppi razziali in cui l'aveva suddivisa l'apartheid.

Ancora più sensata però la risposta dei ricercatori, che ricordarono come fosse indispensabile conoscere gli effetti di quella divisione per poter predisporre soluzioni, e l'unico modo per conoscerlo era fare la domanda sul gruppo d'appartenenza.

Sono passati molti anni da allora, e poche settimane dopo aver compilato senza particolari emozioni il censimento italiano, di cui ricordo a malapena qualche domanda, mi trovo in Albania, un altro paese che ha appena concluso il suo censimento. E ancora una volta verifico come l'esercizio di contar le persone non sempre è una semplice questione tecnica. Questa volta sono state le minoranze il nocciolo della discordia, con una pagina del censimento, a compilazione mi dicono volontaria, che chiedeva una serie di informazioni in merito a religione ed eventuale appartenenza a minoranze.

Ma come sempre il problema non era il censimento, peraltro preparato con una ben pagata assistenza finanziata dall'Unione Europea, ma la serie di questioni che le domande presenti nel formulario andavano a sollevare.

Erano questioni sicuramente importanti, perché come mi è stato detto da una funzionaria dell'Unione Europea, è indispensabile sapere le condizioni in cui vivono le minoranze in un paese che vuole entrare nell'Unione, ma che ha visto contrapposti i leader delle minoranze stesse, spaventati da una norma, si dice poi di fatto abrogata, che multava pesantemente chi dichiarava appartenenze diverse a quelle registrate all'anagrafe, e chi invece vedeva nell'attivismo attorno alla questione la longa manus della Grecia, cui appartiene la minoranza più numerosa, con cui l'Albania ha  una relazione  di vicinato non sempre tranquilla.

La questione sollevata è quella che tanto ha pesato in quest'ultimo trentennio, ed in particolare nei Balcani, della relazione fra appartenenze etnico-linguistiche e stati nazionali. 

Una questione per cui apparentemente non paiono esservi soluzioni facili, almeno fintanto che le appartenenze non comporteranno anche benefici o sistemi di difesa dai pericoli veri o presunti.

E fintanto che questa non sarà risolta l'esercizio del contar le persone dovrà sempre districarsi fra irrilevanza delle informazioni raccolte, stime approssimative quando non vere e proprie bugie, ed i pericoli di una foto talmente definita da rendere immutabili la realtà di persone catalogate una volta per tutte come appartenenti ad un gruppo etnico, linguistico o religioso.

22.11.11

Aeroporto di Peretola (Firenze) - ore 15

Lunedì 21 Novenbre 2011, la carta d'imbarco dice imbarco gate 9 ore 15:20, e speranzoso mi dirigo, per prepararmi alla partenza per Tirana, verso lo spazio delimitato da due vetrate e dallo sgabbiotto dei finanzieri addetti al controllo di chi parte per aree extra Schengen, nel grande androne dove sono sistemate i vari gate di imbarco.
La prima riflessione la faccio passando dai vari camminamenti dove sono sistemati gli sgabbiottini pomposamente chiamati Duty Free: "ma qualcuno la compra questa roba?" almeno a giudicare dall'umanità che sempre più di frequente s'imbarca sugli aerei sembrerebbe che il mondo dei negozi d'aereoporto sia rimasto bloccato agli anni del jet set, di quando prendere l'aereo era un lusso che si permetteva la parte più benestante del paese, quella che non si mischiava con l'umanità dei treni, dei pulman e delle valigie di cartone.
Ma oggi, in tempo di voli low cost, quanti di quegli studenti in trasferta per Madrid. O di quelle vecchie signore con il loro fazzoletto bianco in testa, di ritorno dalla visita al parente emigrato, sono interessati a guardare, non dico acquistare, le bottglie di Sassicaia o i foulard di Gucci? Ed infatti solo il bar è pieno.
Ma torniamo all'imbarco: 70 persone aspettano di passare il controllo passaporti...imbarco previsto per le 15:20, i due finanziari annoiatissimi si presentano con passo stanco solo qualche minuto dopo l'orario previsto, ed iniziano a controllare con calma i passaporti, e per ogni passaporto ai molti albanesi in fila viene rivolta una o più domanda più o meno del tenore:"quando sei entrato, perché sei venuto?".
Mi sono chiesto se le stesse domande le fanno quando al posto dell'aquila albanese vedono l'aquila USA impressa sul passaporto.
Ma m'immagino che sia il concetto contemporaneo di accoglienza...Accogliamo chi può fare la spesa al duty free ed al diavolo tutti gli altri.
E dopo oltre 40 minuti la coda finalmente si esaurisce. 40 minuti per far partire 70 persone e per fare domande probabilmente inutili.
Un'ora e quaranta più tardi, arrivato a Tirana, dopo 10 minuti avevo superato i controlli ed ero già ad aspettare le valigie.
Ogni commento ulteriore è superfluo.

15.11.11

Celebrazione di anniversari di cui non vantarsi

"Ho deciso di tentare oggi di lanciare delle bombe dall’aeroplano. E’ la prima volta che si tenta una cosa di questo genere e se riesco sarò contento di essere il primo." Scriveva così Giulio Gavotti a suo padre. Nella lettera racconta del primo bombardamento della storia dell'aereonautica, avvenuto 1 novembre 1911, quando fece cadere tre bombe di un chilo e mezzo su Ain Zara e la quarta sull'oasi di Tripoli, durante la spedizione coloniale degli italiani in Libia.
L'aereo era un monoplano Etrich Taube.
Cento anni dopo, il 20 ottobre 2011 un altro bombardamento, sempre in Libia, segnerà la fine di Gheddafi. .

12.11.11

Capi carismatici, autocrati illuminati e capitani d'industria

Fino a qualche tempo fa nei dibattiti televisivi italiani non era raro imbattersi in qualche commentatore che disquisiva sull'importanza della leadership carismatica nelle democrazie moderne.

Questi commentatori sostenevano che le leadership carismatiche, suffragate da risultati elettorali o dai sondaggi, evidenziavano come la democrazia avesse trovato la sua dimensione più moderna in una pratica che, riducendo il ruolo di partiti e degli altri soggetti, trovava nel "capo" la sua modalità migliore di funzionamento. E guai a non avere il leader carismatico.

A corollario di questo poi l'appello a "lasciar lavorare il capo" ed il fastidio per tutti i soggetti che potessero in qualche modo rallentarne l'operato.

E' una passione antica quella per il capo, una passione antica che riaffiora di quando in quando ed a tutte le latitudini. In Italia è possibile che per qualche tempo verrà sopita, almeno a giudicare dai sussulti delle ultime settimane del governo Berlusconi.

Ma non è di Berlusconi che voglio parlare, ma delle tante volte in cui ci affidiamo al monarca, speranzosi che nella sua saggezza ci porterà fuori dalla palude, o ci farà sognare, o ci farà sentire migliori.

Voglio partire da due cifre: 850 milioni di dollari e 1.8 miliardi di dollari. La prima corrisponde più o meno al bilancio di esercizio dell'organizzazione mondiale della sanità, la seconda a quello della Bill & Melinda Gates Foundation.

L'organizzazione mondiale della sanità (WHO) è una grande struttura delle nazioni unite. E' una tecnosruttura fatta di funzionari, specialisti, e anche politici, ed è una struttura che si deve confrontare con la politica, nel suo caso rappresentata dagli stati membri delle Nazioni Unite.

Non vi è dubbio che quanto detto sopra può condizionare le priorità d'intervento, e tuttavia garantisce che ci sia un legame fra le priorità dell'organizzazione e quelle dei rappresentanti dei vari paesi (si potrebbe disquisire sulla effettiva rappresentatività delle volontà popolari da parte dei governi dei vari paesi, ma è un'altra questione, che ci porterebbe lontano).

La Bill & Melinda Gates Foundation invece è una grande fondazione privata che opera nel mondo della sanità, secondo alcune aree prioritarie di intervento, che la vedono finanziare istituti di ricerca, pubblicazioni scientifiche, programmi universitari, e progetti sul campo. Come abbiamo visto il suo budget operativo è più del doppio di quello della organizzazione mondiale della sanità.

Ovviamente la fondazione ha un comitato scientifico di altissimo livello, e le scelte sono scelte solide dal punto di vista scientifico, e non vi è dubbio che il modello operativo, associato alla quantità di denaro messo in circolo, abbia riattivato molto il mondo degli interventi nel mondo della sanità nei paesi in via di sviluppo.

In particolare la struttura, composta da pochi centri decisionali, è assai agile ed in grado di intervenire rapidamente.

Tuttavia proprio per le sue caratteristiche operative che la rendono così efficiente c'è da chiedersi se vada proprio tutto bene: se lo chiedono ad esempio Laura Freschi e Alanna Shaikh in un articolo uscito qualche mese fa.

In un passaggio ad un certo punto, dopo aver elencato i molti meriti dell'attivismo dei Gates, l'articolo sottolinea come in futuro potrebbe ad esempio capitarci di leggere di un progetto finanziato dalla fondazione, su un giornale le cui pagine sulla medicina nei paesi in via di sviluppo sono finanziate dalla fondazione, scritto da un giornalista che ha studiato con una borsa di studio dell fondazione, utilizzando dati di qualche ricerca della fondazione...

E se la storia fosse più complessa della voglia di raccontare i successi che caratterizzano spesso questi articoli?

Il caso delle Melinda & Bill Gates è ovviamente particolarmente eclatante, ma viene da chiedersi quanti interventi in giro per il mondo sono fatti perché ritenuti i più giusti dal finanziatore illuminato. E insomma, questa fiducia nei filantropi non ci priva del diritto di discutere, obiettare e contribuire al benessere dei nostri paesi?

E poi c'è quello che viene chiamato "halo effect", l'effetto alone, quell'effetto che ci fa pensare che qualcuno particolarmente bravo in una cosa, sia il migliore anche in tante altre. Siamo davvero sicuri che le qualità che hanno consentito a questo o quell'altro filantropo di primeggiare nel campo in cui hanno ammassato le loro fortune, siano le stesse necessarie per garantire lo sviluppo di società diversissime fra loro?

In politica la dimostrazione che un imprenditore di successo non necessariamente è anche un buon governante la stiamo vivendo in questi giorni in Italia; non vorrei viverne di analoghe anche nel mondo degli interventi per lo sviluppo.

3.11.11

Chi ha bisogno e chi sta male?

"Ma loro non hanno mica bisogno!" ha esclamato una conoscente alla notizia della mia partenza per Tirana per un progetto di cooperazione.

E' possibile che quella frase sia stata motivata più da qualche fastidio o pregiudizio, ahimé diffuso, per le persone venute dall'est, che dalla conoscenza del paese; non penso infatti che siano molte le persone della strada che compulsano abitualmente le statistiche sullo sviluppo, quelle statistiche che posizionano l'Albania in una posizione assai migliore dei paesi dove ho operato negli anni passati.

Tuttavia la frase mi ha colpito e provo a dire come la penso.

Certo che se riteniamo che la cooperazione sia una forma moderna e laica di carità, o una versione più organizzata del principio della buona azione quotidiana, ha ragione la mia conoscente: sono ben più a sud le necessità maggiori, e quanto ci sarebbe da lavorare per vincere quelle povertà.

E non vi sono dubbi che una passeggiata per Nairobi, o Johannesburg, oltre ad essere potenzialmente assai più rischiosa, offre una immagine urbana assai diversa di quella che produono quattro passi per Tirana, con le sue vetrine ed i suoi caffé con i tavolini sulla strada.

E tuttavia i segni inequivocabili delle diseguaglianze sono immediatamente percepibili, già dai marciapiedi affollati di venditori improvvisati di ogni cosa, dai libri più vari ad oggetti della cui provenienza a volte è lecito dubitare.

E poi i mercatini improvvisati di verdure, con anziane contadine incartapecorite dal sole, che vendono i loro prodotti, ed il cui fazzoletto bianco sulla testa indica la provenienza dalla campagna e forse da un altro tempo. Quei contadini a cui il governo post comunista aveva dato le terre, fino ad allora di proprietà dello stato, troppo felice di poter con un tratto di penna trasformarli in piccoli imprenditori e toglierli dalle statistiche sulla disoccupazione.

Quei contadini la cui vita è cambiata poco, salvo che per i fortunati della periferia di una Tirana in espansione, che hanno beneficiato di qualche briciola del boom edilizio.

E poi qualche bambino che dorme per strada, spesso non escluso dalla povertà o almeno non solo, come le decine di migliaia di Addis o di Nairobi, ma dall'appartenenza alla minoranza rom.

E ogni tanto le scene comuni a tanta parte del mondo, di uomini coperti di stracci che rimestano nei cassonetti della spazzatura alla ricerca di qualche cosa di riciclabile, magari le tante lattine che una società modestamente opulenta riesce a produrre.

Tuttavia non è per questo, o almeno non è solo per questo che anche loro hanno bisogno, o forse sarebbe meglio dire, non è perché hanno bisogno che è importante esserci.

E' perché noi abbiamo bisogno. 

Abbiamo bisogno di sapere che il mondo non finisce alla periferia della città in cui abitiamo. Abbiamo la necessità di sapere che molte delle cose che facciamo influiscono sulla vita degli altri, così come molte delle cose che ci interessano sovente nascono al di la del mare.

L'altro giorno una persona cui chiedevo dell'economia del paese mi confessava di come temesse che le statistiche ufficiali fossero truccate: e in fondo non sarebbe il primo paese a nascondere i dati reali per guadagnare l'ammissione nella comunità europea.

Ma sopratutto mi raccontava delle molte persone che sono state espulse dai paesi di emigrazione dalla crisi, ad esempio erano decine di migliaia gli albanesi emigrati in Grecia, e molti sono dovuti tornare, magari costretti ad investire, per garantirsi un futuro, i risparmi di una vita in una piccola attività commerciale a Tirana, e non è detto che gli sia andata bene.
E mi raccontava dei molti albanesi rientrati dall'Italia, e della sfida per trovare modo anche a lori di reinserirsi nel loro paese. Mi raccontava ad esempio di un progetto della Caritas e delle ACLI che nel nord del paese lavora per questo.

Piccoli esempi per capire come siamo legati, perché sono anche nostre le crisi che muovono le persone attraverso i confini. Piccoli esempi che spiegano la necessità di cooperazione.

Mi vengono in mente quelle parole di don Milani così spesso citate e assai meno praticate: "Risolvere i problemi individualmente è egoismo, risolverli insieme è politica".

Quanto bisogno abbiamo oggi di quella politica, e quanto poco attenti ai confini sono i nostri problemi.