25.9.11

Cittadinanze necessarie

La casa di Margie era la dove la strada si interrompeva, per riprendere dopo una scalinata e venti metri più in alto e immettersi sulla Roberts avenue, nel quartiere di Kengsinton a Johannesburg. 

Ci abitai per un po' di tempo assieme alla mia famiglia, affittando un paio di stanze e condividendo salotto e cucina con la padrona di casa. Era uno scambio decisamente sfavorevole per Margie, in cambio di una pigione onesta lei si era presa una famiglia di quattro persone, di cui la più piccola avea poco meno di quattro anni ed aveva deciso di imparare l'inglese guardando un cartone animato di Disney il maggior numero di volte possibile consecutivamente. 

Per noi fu invece una fortuna, Margie aveva militato a lungo nel movimento antiapartheid e ci guidò nei nostri primi passi per capire cosa fosse stata quella lotta, che in quei mesi a cavallo fra il 1993 e 1994 stava arrivando al suo giusto epilogo. 

Una cosa infatti è leggere degli eventi dalla stampa, o saperne dalle iniziative di solidarietà messe in piedi negli anni a migliaia di chilometri di distanza, un'altra incontrare un po' dei soldati semplici di quella lotta. Perché non vi era dubbio che Margie non fosse una delle persone destinate ad una lunga carriera politica nel nuovo Sudafrica democratico. 

Margie era una donna bianca di buona famiglia che, come diceva scherzando, molti anni prima, ancora piccola, aveva trovato ingiusto che la sua bambinaia nera corresse il rischio di essere arrestata se avesse dimenticato di portare con se i lasciapassare obbligatori per i neri che lavoravano nelle zone bianche. 

Di persone che avevano partecipato alla lotta ne incontrammo parecchi in quei mesi, dalle amiche del gruppo femminista, all'intellettuale nero appassionato di cinema, alla insegnante di matematica comunista e bianca che aveva paura dell'aereo e che si ubriacava ogni volta che doveva volare da Cape Town a Pretoria, dove era stata nominata nella commissione di revisione dei programmi scolatici. 

Insomma stare in quella casa ci aiutò a capire come la lotta contro l'apartheid non fosse stata una lotta che contrapponeva bianchi e neri ma fra i molti soggetti che volevano una società più democratica e chi invece difendeva privilegi derivanti dalla pigmentazione, più o meno giustificati religiosamente. 

La nostra padrona di casa raccontava della sua "nanny", ma le strade che portarono alla presa di coscienza dei bianchi furono le più diverse. Ovviamente per i bianchi, perché i neri sin dalla nascita conoscevano il sapore dell'ingiustizia. 

Un pomeriggio rientrando dall'ufficio Margie mi presentò una signora dai capelli bianchi con cui parlava in afrikaans. Avemmo solo il tempo per uno scambio di saluti perché la signora stava andando via. 

Ma la storia che mi fu raccontata della donna che ci aveva lasciato fu per me un'altro esempio della tortuosità di quei percorsi: molti anni prima il governo bianco a seguito del calo della natalità nella popolazione bianca, avviò un piano di riorganizzazione della scuola pubblica progettando la chiusura di molte scuole per mancanza di un numero adeguato di studenti bianchi.   

E' bene ricordare come sotto l'apartheid le scuole fossero rigorosamente segregate. 

Il provvedimento ovviamente andava a colpire la parte meno ricca della società bianca, quella più ricca infatti in gran parte già mandava i figli in scuole private, e in citta molto estese come Johannesburg l'aggravio per le famiglie poteva essere considerevole. 

La signora con i capelli bianchi anni prima aveva organizzato una protesta che muovendosi dalla necessità del suo quartiere, aveva partecipato allo scardinamento della segregazione scolastica. Partendo dalla considerazione che in molte, se non tutte le case della sua zona vi erano donne di servizio che vivevano con i figli, cui spesso era negata l'educazione perché l'apartheid non permetteva scuole per neri nei quartieri bianchi, chiesero che venisse consentito l'iscrizione di questi bambini alle scuole dei bianchi. 

Mi immagino cosa dovesse essere stato per queste signore della classe media sudafricana rimettere in discussione il loro mondo, la loro visione delle cose conseguente all'essere nate e cresciute in un paese che era così, dove il colore della pelle definiva senza scampo in quale parte della città dovevi vivere, che lavori potevi svolgere, che sogni avere. 

E mi era parso particolarmente significativo che la presa di coscienza non fosse nata da un risveglio della passione per la giustizia, da qualche appello ideale, ma dalla constatazione, e vero, anche utilitaristica, della stupidità di un sistema che per difendere il principio ideologico della separazione delle razze, sacrificava il diritto all'educazione dei loro figli e dei figli delle loro domestiche. 

E' una storia cui ripenso tutte le volte che sento qualche persona che strepita sulla necessità di garantire determinati servizi solo a chi è cittadino da qualche decennio o parla di precedenze: molti servizi oggi hanno un senso perché  la loro utenza possibile è composta anche da persone nate altrove. E la cosa non solo non peggiora la qualità del servizio, anzi, in alcuni casi la migliora. Ma è difficile convincere chi è schiavo dei suoi pregiudizi.

18.9.11

ca. 2007 - La Somalia vista dal 15esimo parallelo nord

Nella primavera del 2006 a Mogadiscio si riprese a sparare. All'inizio pareva essere una delle solite scaramuccie fra signori della guerra, quelle scaramuccie utili anche a conoscere la capacità di autofinanziamento dei vari contendenti, perché questo era quello che mi raccontò un mio amico che seguiva da Nairobi i progetti di una ONG in Somalia:" Dicono che a Mogadiscio gli scontri durino esattamente il tempo necessario ad esaurire le munizioni, dopo di che tutto tace fino a che non si è ricostruito il magazzino. E dalla durata degli scontri si sa di quanti soldi dispongono i vari soggetti".

Quella primavera apparentemente di soldi ne dovevano circolare parecchio, perché si sparò per molte settimane.

Era successo che qualche mese prima era nata una coalizione finalizzata a combattere il terrorismo, almeno così diceva la sua sigla, ma sopratutto che disponeva di cospicui finanziamenti USA, che nella loro battaglia globale al terrorismo avevano bisogno di alleati sul campo per le loro operazioni di "Extraordinary rendition".

Come accade in questi casi è anche probabile che ci fosse chi avesse approfittato dei discussi programmi USA per regolare qualche conto nelle guerre fra i vari clan della città, magari consegnando agli agenti USA personaggi non necessariamente immacolati ma poco legati alle trame di Al Quaida.

Qualunque sia stata la storia, è comunque certo che quelle operazioni entrarono in rotta di collisione con un'altra realtà che si era formata sul campo, quella di organismi di amministrazione più o meno sommaria della giustizia, supportati dai vari uomini d'affari somali, che in assenza di uno stato avevano la necessità di qualche organismo che garantisse una qualche forma di autorità. E in assenza di strutture statuali chi meglio delle autorità religiose?

E le corti si organizzarono, e raccolsero soldi anche loro, e munizioni.

Arrivai a Nairobi che la battaglia a Mogadischu infuriava. Ero stato spedito nella capitale del Kenya, con la prospettiva di andare anche a Baidoa in Somalia, per incontrare qualche autorità del governo transitorio che stava la in attesa di riportare la sede del governo a Mogadishu. Dovevo verificare la fattibilità di un'ipotesi di progetto legato ad iniziative sindacali. Fu quello il mio primo e più forte impatto con la realtà somala.

Nel corso di quella settimana passata a Nairobi incontrai le persone più disparate, nel tentativo di sapere di più su quel paese, di cui conoscevo solo le poche cose desunte da qualche articolo della BBC e di qualche altro sito attento alle cose d'Africa.

Mi furono spiegate le questioni claniche, e la magica formuletta che prevedeva una proporzione precisa di rappresentanti in ogni struttura, inventata per mettere d'accordo i vari clan sulla composizione delle strutture di transizione, dal governo al parlamento, fino alle forze di polizia.

Mi fu detto come molto fosse stato speso e come adesso eravamo ad un passo dalla soluzione del rebus somalo, almeno questo pensavano i vari interlocutori, l'ultimo dei quali fu il primo ministro del governo di transizione somalo in persona, che incontrai in un clima surreale nella sua residenza a Nairobi. Surreale perché un primo ministro abitualmente sta nel suo paese, e surreale perché era sempre più chiaro che la situazione era ben lungi dallo stabilizzarsi, tanto che quell'uomo, mi fu sussurrato da qualcuno, pareva destinato a non durare a lungo a giudicare dalle voci che circolavano.

Scrissi sempre più dubbioso il progetto percui ero stato spedito in Kenya, ed il fatto che il finanziatore decise di non prenderlo in considerazione mi fece pensare che forse c'era ancora qualche speranza per quel che riguardava i meccanismi con cui le grandi istituzioni selezionano i progetti da finanziare...

A giugno si concluse la battaglia di Mogadishu, una battaglia che era durata molto più delle precedenti, e che finì con la vittoria delle corti, che non solo conquistarono la città, ma estesero il loro controllo molto oltre.

Ma si sa i religiosi non sanno fare politica, sopratutto quando si aiutano con il kalashnikov. E non li aiuta il fatto che i loro comandanti sono sulla lista nera di più di un paese, percui i mesi successivi furono mesi in cui convivevano due scuole di pensiero: una che sosteneva che le corti erano l'anticamera di un califfato qaidista, destinato a gettare nella instabilità l'intero corno d'africa, l'altra che sosteneva che un movimento che conquista un paese in poche settimane aveva un qualche supporto popolare, e magari sarebbe stato bene parlarci.
Una cosa su cui tuttavia tutti concordavano era che in quei 4-5 mesi la Somalia stava vivendo una fase di tranquillità relativa, come non era accaduto per anni. Anche se c'erano dei prezzi da pagare, come la singolare pretesa di non far vedere i campionati del mondo di calcio del 2006, o di proibire il consumo di qhat, una droga molto popolare e la cui proibizione puà essere paragonata a quelle latitudini ad un divieto a bere grappa in quel di Belluno.

Comunque le corti durarono poco. A fine dicembre l'esercito etiopico invase la Somalia e senza incontrare troppa resistenza in pochi giorni era a Mogadishu. E riprese la guerriglia.

Era da qualche settimana che erano ripresi i combattimenti ed in un bar di Asmara incappai in un funzionario dell'unione Europea che si occupava di Corno d'Africa e che avevo avuto occasione di conoscere qualche tempo prima. Fra una birra e l'altra gli chiesi perché a suo tempo non avessero preso al balzo l'opportunità di un interlocutore politico che pareva finalmente estraneo alla logica dei vari signori e signorotti che avevano spadroneggiato per anni in Somalia. Mi ricordo che mi guardò con un po' di sufficenza, e poi aggiunse che sarebbe stato inutile illudersi sulle corti, perché queste erano prevalentemente riconducibili ad un clan, e considerato quanto contano i clan in Somalia non era possibile una soluzione che non passasse dalla già citata formuletta.

Passarono i mesi ed era sempre più evidente che anche la formuletta non aveva prodotto assolutamente nulla.

In compenso naque una alleanza per la liberazione della Somalia, che trovava la sua legittimazione non tanto nell'appartenenza a questo o quel clan, ma nel desiderio di cacciare gli etiopici dal paese. Perché questo era sempre stato chiaro: il rebus Somalo aveva radici ben ramificate, di cui il pericolo qadista era solo un aspetto, forse ben più corposo il nodo del rapporto con l'Etiopia, contro cui la Somalia aveva combattuto due guerre negli ultimi 40 anni, e sicuramente non era un caso che il governo Eritreo, allora come oggi in uno stato di conflitto non concluso con l'Etiopia, avesse subito ospitato l'alleanza.

Me li ricordo i loro leader, stavano ad Asmara ed alloggiavano tutti all'hotel Ambassoira. Non parevano affatto quel gruppo di fondamentalisti islamici descritti negli articoli specializzati. O almeno non parevano tanto fondamentalisti quelli che giravano per la città. E' vero, ad Asmara in quel periodo era difficilissimo trovare alcolici, ma la ragione era più da cercare nella cronica assenza di valuta per pagare l'importazione degli ingredienti necessari alla produzione della birra che non alla presenza dei somali.

Si tenne anche un convegno costitutivo dell'alleanza, con decine di delegati da mezzo mondo ed osservatori di ogni tipo. L'ambasciata USA fece sapere che per nessun motivo i suoi funzionari dovevano passare dalle parti della riunione, anche se si dice che abbia con discrezione chiesto agli alleati di riferire tutto quello che vi avveniva.

Ma l'alleanza venne e passò, passò quando una parte del gruppo dirigente decise di spostarsi verso Gibuti e da li trattare il suo ingresso in una nuova versione del governo federale di Transizione. Chiedendo ed ottenendo fra le altre cose anche la partenza del contingente etiopico dalla Somalia.

I più speranzosi vedevano nel nuovo TFG l'avvio della pacificazione, gli eritrei probabilmente una sconfitta politica. Con gli accordi di Gibuti gli etiopici riuscirono ad togliersi fuori in qualche modo da un pantano militare che stava creando non pochi problemi non solo a loro ma anche ai vari paesi donatori per la possibili complicità in crimini di guerra.

Quell'anno lasciai definitivamente l'Eritrea, perdendo la possibilità di osservare gli eventi da un punto di vista assai particolare. Da un luogo dove capire cosa stesse succedendo richiedeva sempre robuste dosi di interpretazione dei segnali che venivano dalle mezze parole degli amici locali, dalla limitazioni nei movimenti, dalle confidenze di chi forse poteva sapere, o dall'ascolto ed interpretazione delle più o meno raffinate opinioni espresse dai miei interlocutori in loco.

Ho continuato a leggere delle tragedie somale, provando ogni tanto ad incrociare quel che leggevo con i miei ricordi degli 8 anni sull'altopiano asmarino, ed ho sempre l'impressione che l'intrico somalo sia una vicenda che non si esaurisce nelle strade di Mogadishu o davanti alle coste del Puntland, non è insomma una matassa di cui occorre trovare solo il bandolo, perché le matasse sono molte ed i bandoli sono bene intrecciati.

E sopratutto ho sempre più l'impressione che per districarsi le varie cancellerie coinvolte vadano per tentativi, scegliendo via via soluzioni diverse ma che paiono tutte per ora destinate a finire in un vicolo cieco.

17.9.11

Masaniello 2.0 ed il costo della polenta

Le rivolte arabe sono state senza dubbio la notizia di maggiore impatto dell'inverno 2011. E mentre le immagini delle rivolte tunisine e della piazza Tahir del Cairo circolavano sulle televisioni di tutti il mondo, gli analisti producevano a ritmo incessante interpretazioni sulle ragioni delle rivolte ed analisi sulla loro replicabilità.

Di queste l'analisi più convincente era senza dubbio quella che notava la concomitanza di tre circostanze in grado di fornire un terreno di cultura ideale per una rivolta: la presenza di una popolazione giovanile abbondante e senza prospettive per il futuro, mezzi di comunicazione più difficili da controllare (quella che in gergo viene definita la realtà del web 2.0) e prezzi dei beni di prima necessità in aumento vertiginoso.

Insomma i blogger tunisini ed egiziani come dei Masaniello 2.0.

Ed oggi che la crisi diventa sempre più pervasiva? sappiamo che i prezzi degli alimenti di prima necesità continuano ad essere significativamente più alti dei livelli dell'anno scorso e che per alcuni prodotti, come il mais, le riserve sono ai livelli più bassi dal 1970, con uno stocks-to-use rate del 12%. Un valore che significa che sostanzialmente le riserve mondiali di mais coprono il fabbisogno per 43 giorni, un dato che avrà come inevitabile risultato ulteriori tensioni sul prezzo.

Insomma, l'impressione è che accanto alle emergenze umanitarie cui i giornali hanno dedicato qualche attenzione in questo scorcio di fine estate, con la carestia nel Corno d'Africa in primo piano, i prossimi mesi potrebbero vedere nuovamente all'ordine del giorno il tema della scarsità di cibo in un mondo che ne produce tanto, ma non sempre quando serve; spesso ne fa un uso sbagliato (ad esempio per i bio carburanti); e con meccanismi distributivi che lo trasformano in un bene di investimento quando più dovrebbe essere invece un diritto delle persone.

Perché la siccità è un evento naturale, ma la fame porta assai spesso il sigillo dell'uomo.

16.9.11

Galateo italiano

Lo avevano votato perché rappresentava un certo spirito italiano: l'uomo che non si fa imbavagliare da formalismi e regole, sia che si trattasse di affari che di politica.
Molti lo trovavano simpatico per quella sua capacità di infischiarsene dei cerimoniali più consolidati. Oggi a leggere i giornali mi chiedo quanti ancora pensino di aver scelto bene al momento del voto e quanti invece si sentiranno come dopo una notte un po' brava, quando il mal di testa e qualche foto che non avrebbero voluto fosse stata scattata, o qualche parola che non avrebbero voluto pronunciare, sono li a ricordare che non è mai bene trasformare i difetti e le debolezze in virtù, perché prima o poi arriva il conto.

La nota più amara è che oggi il conto lo dobbiamo pagare tutti.

8.9.11

Imagine there's no countries

Immaginiamoci una terra senza stati cantava Lennon 40 anni fa.
Ed invece gli stati ci sono, e sono separati da confini di ogni genere. Confini storici e confini contesi, confini pacifici e confini turbolenti. la linea gialla della foto delinea un confine illuminato, che separa due potenze nucleari da sempre sul chi vive. L'articolo sulla foto satellitare del confine fra India e Pakistan qui.

3.9.11

La fame in TV

“Just get those nigger babies off my TV set.” pare essere la frase con cui nel 1968 il presidente USA Johnson autorizzò un intervento aereo umanitario in Biafra. Il politically correct era ancora di la da venire, e comunque il presidente da Texano bianco qual'era non si vergognava di usare il termine dispregiativo con cui da sempre i bianchi definivano le persone di colore.

La frase tuttavia dice qualche cosa di più importante dei pregiudizi di un presidente, ricorda come la TV fosse già allora diventata centrale nell'inserire nell'agenda politica argomenti altrimenti destinati all'indifferenza, e sopratutto, con la sottolineatura del “my TV set”, ci ricorda come a colpire non è il fatto in se, ma la sua interferenza con il quotidiano, in questo caso il quotidiano dello schermo TV casalingo di un presidente già alle prese con il conflitto in Indocina e la montante protesta studentesca.

Ripensavo a quella frase qualche giorno fa mentre un amico mi sventolava davanti agli occhi l'ennesimo reportage dalla Somalia, con la descrizione delle sofferenze della popolazione per la carestia e l'immancabile chiosa sull'indifferenza occidentale.

E' l'assenza di copertura mediatica ad impedire la nostra presa di coscienza o è invece la sua mancanza di interferenza con il quotidiano? Perché non è sufficiente sparare la notizia per far si che entri nel circuito, bisogna che diventi l'oggetto dell'interesse degli attori del quotidiano. In assenza di questo la notizia al massimo sollecita note d'ambasciata e un po' di articoli su qualche rivista specializzata.

Insomma, per rispondere al mio amico, ci sono persone che per funzione e mestiere o per passione guardano al mondo, e sono da lodare, ma la maggior parte degli uomini vede il vicino di casa, il collega d'ufficio, il compagno di scuola come soggetto con cui solidarizzare o entrare in contatto, qualche volta presta attenzione alle immagini che propone la TV, ma solo se accompagnate da qualche soluzione “premasticata” tipo sms, intervista all'operatore, banchino per le firme. Ed è comprensibile, perché è ogni essere umano vive agisce e si orienta nel suo orizzonte.

Ed allora probabilmente la sfida è aprire e dare un senso all'orizzonte quotidiano di tante persone. Il problema è come, oggi che di schermi ce ne sono tanti ma capacità e volontà di proporre soluzioni assai meno.