27.5.12

I Lavori che non vogliam più fare


Molti anni fa il parlamento italiano votò una delle prime leggi che tentavano di affrontare la questione della disoccupazione giovanile, era il 1977 e con la legge 285 venivano introdotte norme nuove per l'avviamento al lavoro. La prima di queste consisteva in una lista di collocamento da cui le imprese potevano attingere per contratti a termine che dovevano avere la caratteristica di fornire anche un contenuto formativo, introducendo una innovazione rispetto al preesistente contratto di apprendistato.

Era una legge che vide i sindacati impegnati nelle aziende per raggiungere accordi che prevedessero anche una certa quantità di assunzioni con quei contratti.

A Scandicci ricordo che il sindacato riusci a strappare un impegno alla Billi-Matec (una fabbrica che all'epoca aveva una forza lavoro di svariate migliaia di persone) per l'assunzione di qualche decina di giovani con contratto di formazione lavoro.

All'epoca ero piuttosto giovane e collaboravo con il consiglio di zona e mi ricordo che ci domandammo cosa sarebbe accaduto se le chiamate fossero andate deserte. Per questo ci prendemmo la lista degli iscritti al collocamento e decidemmo di contattarli direttamente per presentare loro l'iniziativa.

Ricordo ancora una delle prime persone che avevo contattato, una ragazza che per punteggio stava in cima all'elenco: mi ascoltò per un po' e poi mi disse poche parole: "Mio padre lavora in fabbrica da 30 anni, e se gli dico che la mia laurea ha portato anche me a lavorare in fabbrica non so come reagirebbe."

Mi congedai da lei dopo aver registrato forse per la prima volta, una versione comprensibile del concetto di "i lavori che non vogliamo più fare", quello che è un mantra spesso ripetuto con toni che passano dalla riprovazione verso i giovani un po' fighetti che non vogliono sporcarsi le mani, a quelli invece che sottolineano l'ovvio, ovvero che potendo scegliere ci sono lavori che si preferirebbe non fare. 

C'è una chiave di lettura tuttavia che mi pare spesso sfuggire nel dibattito sui quei lavori: contrariamente a quello che si pensa non sempre sono lavoro a bassa qualificazione. Certo, vengono assunti anche manovali, ma fra i tanti immigrati nel nostro paese ci sono anche muratori specializzati e operai con professionalità a volte anche elevate, persone dotate cioè di quelle quailifiche indispensabili in tante aziende d'Italia, e che spesso hanno fatto la fortuna del made in Italy.

Ed allora c'è la prima questione da notare: spesso non sono i lavori che "noi non vogliamo più fare", ma semplicemente lavori per cui non esistono sufficienti candidati con le qualifiche necessarie, ne le imprese hanno interesse o voglia di investire in formazione: come non notare a questo proposito l'ironia delle domande di assunzione per personale con contratto di apprendistato in cui però si chiede pregressa esperienza nel settore?

Ma poi c'è il secondo aspetto che mi pare ancora più importante da notare: sono parecchi anni che il messaggio ricorrente è quello della fine del posto fisso: "fra 20 anni molti di noi lavorerano in campi e professioni che oggi ancora non esistono" si diceva qualche anno fa agli albori della rivoluzione introdotta dall'informatica. Ancora pochi mesi fa con una battuta infelice il presidente del consiglio Monti accennò alla noiosità del posto fisso. 

Ed allora in questo contesto come sorprendersi del rifiuto a percorsi formativi professionalizzanti troppo stretti. Un ragazzo di oggi, fra la prospettiva di percorrere tutte le tappe del lavoro di fabbrica o cantiere, con il rischio di trovarsi dopo qualche anno con una qualificazione non spendibile, e l'arrangiarsi in lavori precari, dei più svariati, nella speranza di incappare nel filone giusto, probabilmente sceglie al seconda ipotesi. Insomma "i lavori che non vogliono più fare" potrebbero essere anche quelli che non vogliono imparare perché temono che potrebbero non portare troppo lontano. Ed è difficile dare loro torto. 

E credo che così abbia scelto a suo tempo anche quella ragazza di trentacinque anni fa.

11.5.12

Cittadinanze minori

"Gli zingari dovete emarginarli voi" gridavano i manifestanti qualche giorno fa a Pescara.

I motivi della manifestazione, promossa da un gruppo di tifosi del Pescara calcio, erano legati all'omicidio di un capo della tifoseria locale, per mano di un altro pescarese appartenente alla comunità roma che vive da anni in un quartiere della città.

La vicenda fornisce qualche spunto di riflessioni: intanto il responsabile dell'omicidio si chiama Massimo Ciarelli, un cittadino italiano, ed appartiene ad una comunità che abita a Pescara dagli anni 40.

Il contesto in cui nasce non è quindi quello conseguente ai flussi migratori degli ultimi anni ma quello ben più antico che nella società italiana hanno innervato i rapporti fra comunità roma e sinti e resto della popolazione. Insomma in piazza a Pescara non c'erano nuovi razzismi ma ben più antichi pregiudizi, gli stessi pregiudizi di cui parlavo qualche tempo fa qui.

Probabilmente la spinta a dividere il mondo in "noi e loro" che sta dietro alla manifestazione di Pescara è connaturata nelle comunità umane, e conseguente alla necessità di individuare rapidamente i possibili pericoli per la sopravvivenza della comunità.

Ed allora il tema è che è la cittadinanza italiana che non è sufficente per definire il "noi" perché i roma di Pescara (e del resto d'Italia) sono rapidamente esclusi dal noi

E' evidente  che nonostante tutti gli sforzi e gli slogan, il principio di cittadinanza è un concetto per molti nebuloso, che spesso viene confuso con quello di appartenenza ad un insieme di culture e consuetudini maggioritarie e che vengono identificate con la cittadinanza.

Ma se le seconde vengono confuse con la prima è assai probabile che il motivo stia tutto nella debolezza della prima. Insomma se non abbiamo chiaro cosa significhi essere cittadini a definirci sarà l'essere volta volta meridionali o padani, bianchi o neri, juventini o interisti, cristiani o mussulmani, insomma via  via con le molte identità che ogni persona si porta dietro.

Colpisce poi quell'appello ad emarginare gli zingari, paradossalmente opposto a ciò che più frequentemente si sente dire quando il problema di un insediamento di Roma: "ma loro non si vogliono integrare".

Ma davvero l'integrazione deve essere una funzione della cittadinanza? non sarebbe più giusto ricordare che chi nasce, vive ed opera in un paese ha doveri e diritti che prescindono dal colore della pelle, storia famigliare e cultura e propensione ad essere simpatico ai vicini di casa?


8.5.12

La rete siamo noi

Qualche tempo fa mi chiedevo quanto valessero le mie telefonate skype, oggi scopro che valgo anche per la mia semplice esistenza sui social network. Per la cronaca la mia valutazione è di $251.  Speravo di più...