26.2.11

Profughi, rifugiati e lavoratori migranti

"Prepariamoci all'invasione" questo il sunto di una parte degli articoli apparsi sulla stampa in questi giorni di insurrezione in Libia. E ovviamente il grido di allarme viene supportato da stime numeriche ed aggettivi impressionanti: "un milione e mezzo", "centinaia di migliaia", "Esodo biblico" etc. etc.


Giustamente il presidente Napolitano fa appello alla calma, ma conoscendo la propensione del mondo politico italiano ad usare i temi internazionali per le beghe locali, quando non per ribadire un machismo da     Rambo tirati su a polenta taragna, c'è da ritenere che dopo il rituale convenire con "le alte parole del capo dello stato", riprenderà il balletto di cifre, stime ed approssimazioni sul tema. Tutto secondo il più genuino carattere italiano.


Le approssimazioni iniziano sin dal momento delle definizioni: per un lettore di giornali o spettatore televisivo italiano, migrante e profugo sono sinonimi tesi a definire la persona proveniente dall'estero per motivi diversi dal turismo, e magari destinato a togliere il lavoro agli italiani.


Il fatto è che non sono sinonimi: nel primo caso si tratta di soggetti la cui migrazione è volontaria e motivata da un legittimo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, nel secondo caso invece si hanno persone che per cause di forza maggiore non possono più risiedere nel luogo dove sono nati e cresciuti. I primi sono tutelati dalla convenzione sui migranti, i secondi dalla convenzione sui rifugiati. Certo il confine non è sempre facile da tracciare: carestie o povertà endemica di un paese sono condizioni che portano a migrazioni rientranti nel primo caso ma che hanno anche molti degli aspetti tutelati dalla seconda.


La seconda approssimazione nasce nel momento in cui si ipotizza un parallelismo fra potenziale di creazione di profughi conseguente agli eventi libici, ed i flussi sull'Italia degli stessi.


Cominciamo intanto dalle tendenze nei flussi: in tutta l'Africa le guerre e le turbolenze non hanno mai creato flussi di massa verso l'Europa e men che meno verso l'Italia. Tanto per essere precisi: secondo i dati dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati (UNHCR) nel 2009 in Italia c'erano 60,000 persone con lo status di profugo o assimilabile. Nello stesso anno in Sudan erano quasi 1,500,000, e nel Chad 500,000. Molti meno in Egitto (100,000), ma sempre in quantità superiore all'Italia. Ed è abbastanza logico: solo una percentuale bassa di persone è disponibile a cambiare paese, la maggioranza preferisce stare nel proprio, e nel caso dovesse abbandonarlo, cerca di rimanere il più vicino possibile alla propria casa.

Insomma è più prevedibile che in caso di guerra civile conclamata una parte dei sei milioni di libici interessati dalla guerra si muova all'interno del paese o verso i paesi vicini, piuttosto che imbarcarsi per l'Italia (fra l'altro non serve avere una laurea in matematica per capire quante imbarcazioni sarebbero necessarie per portare un milione di persone da una sponda all'altra....). Ed infatti il "European Council on Foreign Relations" parlando dei possibili arrivi di migranti dalla Libia li stima in 70,000 l'anno, cifra certo più alta dei 7,300 a cui si era ridotto il flusso in questi anni, ma sempre lontano dalle cifre sparate dai giornali.
 
Ma gli osservatori ci dicono che un esodo è già iniziato, ed è quello dei lavoratori stranieri che in Libia costituivano una quota significativa della popolazione (solo l'Egitto ne aveva 1,000,000). Ma cosa ci fa pensare che mentre i serbi stanno rientrando in Serbia, gli italiani in Italia, gli egiziani invece preferiscano proseguire verso l'Europa anziché tornarsene a casa? Forse solo la superbia occidentale.


Ed infatti sappiamo che tutti i paesi del nord Africa da cui provenivano i lavoratori stranieri in Libia stanno già fronteggiando l'emergenza del rientro, che si somma, per loro si, all'emergenza per i profughi libici dalla Libia.


Sarà bene guardare da quella parte quando urliamo alla emergenza profughi, smettendo di contemplarci l'ombelico.

23.2.11

Il santo, il dittatore pazzo e gli Stati Uniti d'Africa

"Arroganti, ma io sono un uomo libero...il disprezzo per i neri e' conficcato nelle loro teste ma io intendo restare padrone di me stesso". Furono le parole con cui Nelson Mandela nell'ottobre del 1997 rispose alle critiche dell'allora presidente degli USA  Clinton che criticava duramente la visita di Mandela a Tripoli, ed ancora: "Coloro che ci dicono che non avremmo dovuto essere qua sono senza principi morali, quest'uomo ci ha aiutati quando eravamo soli, mentre coloro che ci dicono che non dovremmo essere qua aiutavano il nemico...".

Insomma, la lista degli amici di Gheddafi va ben oltre all'elenco dei molti che si sono messi in fila davanti al tendone del colonnello nella speranza di poter beneficiare di una parte dei profitti derivanti dalle risorse petrolifere libiche: hanno sperato, approfittato, creduto in, o semplicemente tratto beneficio dalle relazioni con la Libia di Gheddafi movimenti ed organizzazioni le più disparate e disperate.

In questi giorni in cui Gheddafi, dopo aver ordinato i massacri dei civili urla in televisione "Voi che mi amate, voi libici tutti, uomini e donne uscite dalle case, attaccate i topi di fogna nei loro rifugi, purgate la Libia centimetro per centimetro, casa per casa, strada per strada. Prendeteli, arrestateli, consegnateli alla polizia. Milioni mi difenderanno, fatevi sentire e gridate "Sacrificheremo l'anima e il sangue per il nostro leader", ci si chiede come sia stato possibile che un leader come Gheddafi possa aver suscitato l'interesse di chichessia a frequentarlo, anche solo per opportunità economica.

Ci si chiede ad esempio come sia stato possibile che un uomo della statura di Mandela, considerato quasi un santo nel suo paese, si sia sentito in debito di una persona palesemente disturbata, di cui era noto come avesse represso la dissidenza nel suo paese, ed il cui equilibrio mentale era oggetto di studio delle intelligence occidentali già poco tempo dopo la sua presa del potere (va detto che se le capacità di analisi erano identiche alle capacità di previsione c'era poco da dar credito a chi preconizzava una durata breve al potere dell'allora giovane colonnello).

Certo nel caso di Mandela va ricordato che accanto al senso di riconoscenza nei confronti di chi aveva aiutato la sua organizzazione, sentimento molto forte nello statista sudafricano, era presente anche la necessità di non chiudere mai le porte del dialogo, perché una parte significativa del suo stile di leadership era occupata dal cercare sempre di tirar fuori il meglio dalle persone, anche dai "peggiori". E come si ricorderà infatti, due anni dopo la visita di Mandela a Gheddafi, la Libia consegnò ai tribunali inglesi i funzionari libici accusati dell'attentato di Lockerbie, atto che fu il primo passo verso la sospensione delle sanzioni alla Libia e che sancì un nuovo corso nelle relazioni diplomatiche di quel paese.

Ma con tutta probabilità l'argomento della follia non è sufficiente ne a spiegare il passato di Gheddafi ne il suo presente. Non è sufficente a spiegare le guerre condotte in prima persona (ad esempio Ciad 1975-1981) ne quelle fomentate addestrando truppe per movimenti di mezza africa e finanziandone altrettanti a giro per il mondo. Non è sufficente perché molte delle contraddizioni e linee di tensione in cui Gheddafi si è inserito, forte della sua forza economica sono preesistenti e purtroppo molte sono destinate a sopravvivergli se non ad aggravarsi.

Va infine aggiunto che nell'ultima fase un occhio benevolente il colonnello lo ha trovato anche in soggetti insospettabili. Come è noto la componente predominante della attività diplomatica internazionale libica degli ultimi anni è stato l'impegno nella trasformazione della Unione Africana, con l'obbiettivo ambizioso di divenire "gli Stati Uniti dell'Africa", riprendendo il sogno panafricanista dei leader dei primi movimenti anticolonialisti africani. Bene, in uno dei documenti riservati della diplomazia USA pubblicati da wikyleaks si legge "Se avvicinata con il rispetto appropriato, la Libia può essere un attore efficace per il perseguimento dei nostri (degli USA ndt) obbiettivi di politica internazionale, facendo leva sulle sue connessioni e appoggi nel continente, come ha fatto (in qualche modo) in Ciad, Sudan e Somalia".

Un'azione sicuramente derivata dal fallimento del sogno panarabo di Gheddafi, scontratosi in primo luogo con la forza dell'Egitto post nasseriano sostenuto dagli USA, e poi con la forza dei regimi presenti nel mondo arabo, e che aveva portato Gheddafi a cercar gloria nel continente africano, prima con guerre e finanziando ed addestrando movimenti guerriglieri, alcuni degni come l'ANC, altri assai impresentabili; poi indossando i vestiti della diplomazia ed aprofittando delle frustrazioni di un continente alla ricerca di un ruolo diverso da quello di campo di battaglia delle guerre vere degli anni della guerra fredda.

Un'azione che si inseriva in quel solco di aspirazioni che vedevano la soluzioni dei mali del continente in un rinascimento africano, caratterizzato da un rafforzamento delle istituzioni sovranazionali ed un loro maggiore protagonismo. Un'azione, quella libica, dagli effetti questa volta assai più positivi rispetto al supporto offerto negli anni alle instabilità del continente.

Un'azione  di cui la Libia è anche una delle principali finanziatrici, garantendo il 15% del budget dell'unione pur rappresentando solo lo 0,7% della popolazione africana. Un contributo che ovviamente si traduce in influenza, Gheddafi è stato anche presidente dell'unione, ma che assicura anche all'organizzazione una qualche efficacia nella sua attività. Ricordiamo ad esempio come l'unione abbia ad oggi missioni militari in Somalia e Darfur.

E' evidente che gli avvenimenti di Libia se hanno colpito le opinioni pubbliche occidentali, per la sconvolgente violenza delle reazioni del sistema ed il bagno di sangue ordinato da Gheddafi, hanno anche i loro riflessi sui processi internazionali in cui la Libia è coinvolta. Insomma c'è poco da sperare dalla AU, con buona pace di coloro che avevano creduto o sperato che l'attuale forma organizzativa dell'unione africana potesse preludere ad un ruolo nuovo per l'Africa. E per adesso molti tacciono. Il quartier generale della AU è silente, così come non sono molte le reazioni dei principali paesi dell'unione.  

Ed è assai probabile che sia un cambio della guardia a Tripoli che una vittoria di Gheddafi bagnata nel sangue vedranno diminuire considerevolmente l'impegno libico nella organizzazione: pare infatti inevitabile e giusto che le risorse del paese vengano in futuro dirottate nel paese.

Ne aiuterà i libici a sentirsi africani il fatto che a sparargli addossi siano battaglioni costruiti dai molti giovani provenienti dall'Africa subsahriana ed addestrati negli anni prima per essere rivoluzionari nei loro paesi, poi per essere truppi mercenarie a disposizione degli obiettivi del capo, e oggi  per fare ciò che ai soldati libici ripugnava, quello che ripugna di più ai militari di ogni latitudine: sparare sui propri concittadini.

Insomma, la scomparsa o il ridimensionamento di  Gheddafi è un evento sicuramente positivo, nel mondo della diplomazia africana le azioni ed i comportamenti del colonnello nella AU sono oggetto di racconti che comprendono tutta la gamma che va dallo scherno al terrore, tuttavia non si vedono per ora all'orizzonte altri soggetti in grado di investire sullo sviluppo di una politica africana. E questo non è un bene.

21.2.11

Petrolio

Tanto per contestualizzare: nel 2009 l'Italia ha consumato 1.580.000 barili al giorno, di cui il 22% arrivava dalla Libia, la Libia nel 2009 esportava il 19% della sua produzione in Italia. Mancano i dati definitivi per il 2010, ma l'Unione Petrolifera dà la quota di fabbisogno petrolifero italiano coperto dalla Libia al 25. Il grafico che segue riporta le fonti di approvigionamente petrolifero italiano.
 

20.2.11

i ricchi votano le politiche dei ricchi...

Ancora a proposito dei due mondi: interessante articolo dell'Economist sul tema dei rapporti fra denaro e politiche. Particolarmente significativo l'ultimo paragrafo "I legislatori che si preoccupano dei poveri devono spesso realizzare accordi che soddisfino anche i ricchi che sostengono le loro campagne ad altre istituzioni. Chi difende i ricchi raramente deve fare questo tipo di accordi. Il denaro, creando questa asimmetrira ottiene assai più spesso quello che vuole.... questo non è una minaccia tremenda alla democrazia eccetto nei casi dove la mobilità sociale crolla. In quel caso si crea una classe permanente di soggetti privi di diritti politici. E questo può essere altamente destabilizzante."

19.2.11

Due mondi

Nel maggio del 1998, intervendendo in un dibattito parlamentare in Sudafrica sul tema della riconciliazione nazionale, l'allora vicepresidente sudafricano Thabo Mbeki sottolineò con forza come non era possibile pensare che quel paese potesse, in 4-5 anni, cambiare dalla realtà ereditata e caratterizzata dalla presenza di due nazioni, una realtà che datava sin dai tempi della colonizzazione avviata dagli olandesi 350 anni prima.

Era una osservazione che gettò la prima acqua sul fuoco degli entusiasmi suscitati dalla presidenza Mandela, dove il mantra della nazione arcobaleno, recitato in ogni occasione, aveva offuscato la realtà di una società profondamente diseguale, tanto diseguale da poter definire il paese come diviso in due nazioni diverse.

In effetti la verità delle cose era molto più simile al quadro dipinto da Mbeki che alle speranze suscitate dall'epilogo vittorioso della lotta all'apartheid. E a distanza di una dozzina di anni le cose sono cambiate ma non a sufficienza, se è vero che il Sudafrica rientra sempre fra le nazioni più diseguali al mondo.

Ma c'è da aggiungere una cosa: probablmente quella metafora che descriveva così bene la differenza che esisteva fra il mondo dei bianchi e quello dei neri, in realtà è applicabile in generale alle nostre società contemporanee.

Insomma, quel pezzo di società che in questi anni di crisi non solo non si è impoverito ma ha visto crescere la sua ricchezza, conosce il prezzo di un biglietto dell'autobus? e quando fa la spesa si ferma a vedere il banco delle offerte speciali? oppure a fa parte di una classe che si veste con la stessa cura del lusso a Roma come a New York, a Johannesbourg come a Mumbai? e compra gli stessi telefonini, le stesse auto di grossa cilindrata e sogna di mandare i figli nelle stesse università prestigiose?

E la voglia di "essere come loro", quanto ha modificato le aspirazione di tutti gli altri, che per queste hanno forse scelto fra le imitazioni del lusso quelle più accessibili, magari acquistabili a rate? E quanto pesa la constazione del fallimento, quando la crisi rende sempre più difficile il pagamento delle rate o l'onorare il debito?

In queste settimane di rivolte nel mondo arabo una cosa è stata assolutamente chiara, la rivolta evidenzia lo scarto esistente fra meccanismi di costruzione del benessere che ne concentrano progressivamente i beneficiari all'interno di elite sempre più ristrette ed anziane, e società con crescenti aspettative irrealizzate da parte di settori sempre più ampi di popolazione, in gran parte giovane e spesso ben scolarizzata.

Due mondi. Nell'occidente i tassi di gioventù sono assai più bassi, ma disperazione e fatica di vivere non mancano, chissà cosa ci riserva il futuro...

16.2.11

Africa 2.0

"Bongokuhle Miya ha scritto sul profilo Facebook della presidenza, che la sua città è in condizioni disastrose, con tubature rotte dappertutto, un sistema fognario inesistente e animali domestici liberamente a spasso per il paese".

e poi ancora "Portia Busisiwe Mrwetyana, parlando di diseguaglianze nella sua città dove sorge una bidonville priva di servizi, proprio accanto ad un quartiere dotato di tutto scrive sulla nostra pagina Facebook: - Perché ci trattate diversamente quando il nostro voto ha lo stesso valore, perché?".

Se non fosse per un particolare questi due passaggi non ci raccontano niente di nuovo. E' la classica descrizione di due situazioni in un paese chiaramente alle prese con le diseguaglianze proprie dello sviluppo, quelle diseguaglianze che lasciano indietro le zone economicamente meno interessanti di un paese, come nel caso delle lamentele di Bongokhule, o le grandi o piccole aree di povertà urbana, come quella descritta da Portia all'interno di quelle città che invece usufruiscono di ottimi servizi.

Sono le lamentele di chi è rimasto indietro, di chi chiede che al principio democratico che riconosce che per ogni testa ci sia un voto, corrisponda anche una effettiva eguaglianza nei diritti di cittadinanza.

E anche le immagini che vengono evocate sono immagini ben note e caratteristiche di molti paesi in via di sviluppo, di animali per strada e bidonville accanto a quartieri residenziali.

Ma c'è un particolare nuovo: queste lamentele non sono riportate in interviste raccolte da qualche ONG o gruppo missionario che lavora fra gli ultimi, ne sono il frutto di segnalazioni di qualche agenzia governativa, sono invece tratte dai commenti postati sul sito facebook ufficiale della presidenza della repubblica del Sudafrica e riportate nel discorso sullo stato del paese pronunciato pochi giorni fa dal presidente sudafricano.

La novità, anzi le novità, sono che qualcuno dello staff della presidenza della repubblica del Sudafrica si legge i commenti sul profilo facebook, tanto da utilizzarli anche come materiale per la formulazione del discorso. Insomma il canale è un canale effettivo. La seconda novità è che l'uso dello strumento è talmente esteso da far si che anche una donna che vive in una Bidonville sia riuscita a trovare il modo di connettersi ed inviare un commento al presidente,

La cosa non deve sorprendere: è assai probabile che i due interlocutori di Zuma non abbiano un computer e non abbiano nemmeno il telefono fisso a casa, ma è assai possibile che nelle vicinanza di casa ci sia un internet café. O che loro o qualcuno del loro gruppo abbia un telefono di ultima generazione con cui è stato possibile scrivere sulla bacheca del Presidente.

Ed è la quantità di internet café presenti fino alle zone più povere, così come la diffusione straordinaria della telefonia mobile a cambiare molte cose del panorama contemporaneo africano. E le mobilitazioni di queste settimane nel nord Africa l'hanno sottolineato in modo evidente.

Fino a qualche anno fa capitava di sentire qualche uomo politico in Italia che commentava gravemente "Ci sono più telefoni a New York che in tutta l'Africa", oggi non solo non è più vero, ma ci sono anche molti che usano quei telefoni per avvisare il loro presidente che è il caso di darsi da fare.

15.2.11

Il nostro bastardo

"E' un bastardo, ma è il nostro bastardo", è una frase, spesso riportata anche nella variante "è un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana", attribuita a tre o quattro presidenti USA e riferita ad altrettanti dittatorelli centro e sud americani ed è forse fra le più usate per spiegare l'approccio alla politica internazionale degli Stati Uniti, e per esteso del grosso delle diplomazie mondiali.

E' infatti abbastanza evidente quanto negli anni il tema della stabilità delle alleanze in campo internazionale sia stato ben più rilevante ad esempio di molti principi dichiarati universali con la dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948.

Nonostante una più apparente che reale modifica di approccio nel decennio delle "guerre umanitarie", terrificante definizione data all'interventismo militare degli anni 90, quando l'attenzione pareva concentrata su aree di tensione dove era evidente la violazione di diritti, le cose non sono poi cambiate gran che fino ad oggi, anzi con la stagione di Bush alla Casa Bianca, è stato ancora una volta evidente che il problema non era tanto l'assenza (effettiva) di democrazia o diritti in questo o quel paese, ma l'inaffidabilità del "bastardo" di turno al potere in un paese cruciale.

Questo perché nello schema degli equilibri generali "il bastardo" spesso garantisce il controllo per procura nelle aree strategiche, o più turbolente del mondo, esercitando una adeguata azione di "polizia" nell'area interessata, e grazie al supporto di questa o quella potenza. Un supporto dato a prescindere dai valori morali e dalla fonte di legittimazione, ma garantito dalla capacità di quel governante di mantenere la sua posizione.

Se guardiamo al mappamondo, sono abbastanza visibili i soggetti che negli anni sono stati investiti da questa funzione di procura: coincidono sempre con gli eserciti più potenti e meglio equipaggiati, con i pacchetti di assistenza militare più ricchi, e spesso con i governi più longevi.

Sono quelle che vengono chiamate potenze regionali, ed il cui compito è a volte quello di fare il lavoro sporco per conto di altri. Con buona pace di diritti umani e democrazia.

Questo il quadro fino ad oggi.

Le vicende tunisine ed egiziane introducono una novità: si sono manifestati i limiti dei "nostri bastardi" nel mantenere lo status quo, ed è apparsa chiaro che quei modelli di gestione del potere non avevano costruito un immediato ricambio possibile in linea con le aspettative della società così come si è sviluppata negli anni.

Insomma fra la struttura del potere, che nei paesi a partito unico o con un partito fortemente maggioritario è piramidale e basata su catene di comando verticali e per anzianità, e società invece composta in misura crescente da giovani, la tensione è diventata crescente fino al punto di rottura. L'aggiunta di meccanismi diversi di connessione ha aiutato a strutturare un tessuto di relazioni in grado di costruire le masse critiche necessarie.

Accanto a tutte le considerazioni che facciamo sul risveglio del mondo arabo, sulla nostra incapacità di comprendere quelle società (gli analisti accreditavano più potere ai proclami degli integralisti che agli appelli su facebook), non sarà il caso anche di chiederci se a questo punto le rivoluzioni tunisine ed egiziane, le sommosse yemenite ed iraniane, le tensioni algerine, non stiano rendendo manifesto come la politica del "nostro bastardo", oltre che moralmente poco tollerabile, si stia dimostrando sempre più inefficace, e che sia pertanto il caso di adottare un altro approccio nelle relazioni fra stati?

E poi ad oggi, non è che più di un bastardo forse si regge a malapena in piedi grazie solo al fatto che altri paesi si danno da fare perché possa "governare il suo paese con saggezza e con lungimiranza", tanto per citare lo sfortunato auspicio del nostro ministro Frattini a proposito di Mubarak?

10.2.11

Il cagnolino di Tiziana Maiolo

"E' più facile educare un cane che un rom", così si è espressa, con apparente candore, qualche giorno fa Tiziana Maiolo, portavoce di futuro e libertà a Milano, commentando il rogo in cui hanno perso la vita quattro bambini rom a Roma.

Le immediate critiche arrivate hanno spinto la Maiolo a dimettersi dall'incarico nel giro di poche ore. Ed ha fatto bene, e tuttavia quella frase dice tantissimo di pezzi importanti dell'Italia e di come pensa una parte del paese.

Di fronte alla tragedia, ed ai corpi dei bambini Rom, le parole di sdegno e condanna sono immediate, con il loro corollario di trasmissioni TV e primi piani sul dolore, e tuttavia quanta parte d'Italia ha sentimenti più vicini alla Maiolo che a quello sdegno, a volte di circostanza?

In fondo per questi, gli stessi bambini di cui scrutano gli alloggi fatiscenti in TV, sono anche i piccoli ladruncoli che operano sugli autobus, o i figli di quella ragazzina perennemente incinta, che recita la solita litania di disgrazie sul treno, sulla metro o per la strada.

Ed alla pietà per i bimbi si accompagna la considerazione "però gli zingari...", seguita da una serie di luoghi comuni ed opinioni che ben conosciamo, perché sono quelle che circolano al mercato quando nella palazzina disabitata si insedia un gruppo di nomadi, o che serpeggia nel condominio quando vicino viene predisposta un'area per un campo.

Ed ai luoghi comuni è difficile porre rimedio. Ed i loro effetti possono essere devastanti, come fa capire la brutalità della frase della Maiolo. Un tentativo di rispondervi viene da un documento approvato proprio ieri dal Senato della repubblica, che ha votato all'unanimità il Rapporto conclusivo dell'indagine sulla condizione di Rom, Sinti e Caminanti in Italia.

In quel documento ad esempio si evidenzia bene quanto scarto vi sia fra la percezione della presenza dei nomadi sul territorio, e la loro effettiva consistenza numerica (secondo una indagine realizzata per conto del Senato, gli Italiani ritengono che la popolazione Rom e Sinti nel nostro paese oscilli fra 1 e due milioni, mentre in realtà è assai minore, attestandosi sullo 0,3%).

Una differenza evidente sin dalle definizioni: li chiamiamo nomadi, nel tentativo di dimostrarci più evoluti di chi li chiama zingari, quando l'85/90% dei rom e sinti europei non sono più nomadi da generazioni, alcuni da almeno 150 anni. Ed il fatto che in Italia la percentuale che sta ancora nei campi sia notevolmente più alta che nel resto d'Europa dice molto di più su di noi e sulle nostre istituzioni che non sulla cultura di quei popoli.

Ma non voglio soffermarmi oltre su questo aspetto, così come ad altri pregiudizi che circolano in merito alla presenza dei Rom e Sinti nel nostro paese, assai più illuminante la lettura del documento del Senato. C'è un'altro riflessione che invece mi pare indispensabile fare ed è quella del rapporto che abbiamo con i soggetti deboli della società, ed è indubbio che un popolo che ha una aspettativa di vita di 10/15 anni inferiore alla media europea, che vive in campi mal attrezzati e guardato con sospetto dal reso della popolazione, sia un soggetto debole.

Quanti sono quelli che parlando dei deboli non riescono a scindere l'aspetto dei diritti delle persone da un giudizio morale su modelli culturali, stili di vita, valori e comportamenti degli stessi? Insomma di fronte al campo nomadi si voltano dall'altra parte pensando che in fondo se lo meritano, perché i maschi sono maschilisti, i bambini forse vengono allevati per rubare, e la loro cultura è una cultura che impedisce loro l'integrazione?

Fra l'altro argomenti in parte simili affiorano nei confronti di altri soggetti deboli, si pensi solo a come è stata vissuta la fase degli sbarchi dall'Albania, o al rapporto ad esempio con gli immigrati di fede islamica.

Sono opinioni diffuse e che hanno una loro presa, e tuttavia se è comprensibile che ci sia più simpatia per le vittime quando si ritengono innocenti, è il momento di dire che invece no, c'è una linea sotto cui non è accettabile andare, e che definisce quello cui dovremmo avere diritto per il solo fatto di appartenere alla razza umana, in questo secolo e visto che parliamo d'Italia, in questa parte del mondo.

Insomma la civiltà di un popolo non si vede da come tratta i suoi figli migliori, ma dai diritti che assicura a tutti, rom compresi: mi dispiace per il cagnolino di Tiziana Maiolo, ma una persona deve meritare sempre più rispetto di un animale.

Fra l'altro sono piuttosto certo che i bambini Rom, una volta smesso di essere sbatacchiati da un campo all'altro e da una scuola all'altra, dimostreranno di essere molto più capaci di quel povero cane, e magari anche di Tiziana Maiolo.

7.2.11

Il Tunnel

Siete bloccati dal traffico dentro ad un tunnel, ad un certo punto vedete che la fila accanto alla vostra inizia a muoversi: nonostante il disappunto per il fatto che non sia la vostra fila comunque provate sollievo perché sicuramente fra un po' sarà il vostro turno.
E' la metafora con cui oramai molti anni fa Albert Hirschman spiegava perché le diseguaglianze conseguenti allo sviluppo, anziché creare tensioni sociali, venivano vissute con attesa da chi era escluso dal banchetto.
Le sue proposte fornivano una alternativa alle teorie del grande balzo in avanti, dei piani quinquennali, dello stakanovismo equalitario proposti dal campo socialista. Insomma meglio concentrarsi sui comparti economici più promettenti che sperare in un avanzamento generalizzato dell'insieme della società.
In definitiva l'aumento delle diseguaglianze, ben lungi dall'essere un inconveniente insopportabile, era solamente un fatto inevitabile destinato ad essere riassorbito nel lungo periodo, esattamente come nell'ingorgo del tunnel anche la vostra fila ad un certo punto inizia a scorrere.
E se guardiamo la storia di questi anni vediamo chiaramente come questo effetto tunnel abbia funzionato, garantendo una pace sociale maggiore di quanto non sarebbe stato lecito aspettarsi, considerati i sommovimenti che hanno interessato ad esempio società a base fortemente equalitaria come quella cinese, o società come quella indiana dove posizione e futuro erano stati predeterminati per secoli dall'appartenza ad una casta.
E tuttavia, ammoniva Hirschman, ad un certo punto l'effetto positivo cessa, perché se la vostra fila non si muove, o il differenziale di scorrimento è troppo alto, qualcuno proverà a spostarsi nella fila più veloce, con i conseguenti problemi di sicurezza, e chi è rimasto imbottigliato nella fila sbagliata sarà sempre più frustrato.
L'impressione è che la storia dei prossimi anni sarà in misura sempre maggiore la storia di chi è rimasto nella fila sbagliata.
A Tunisi come in Egitto il tema è assai chiaro: un paese che ad un certo punto ha bloccato le prospettive per interi settori della società. Ed è assai probabile che lo stesso stia accadendo in gran parte dei paesi che in questi ultimi anni sono usciti dal sottosviluppo. Usciti dal sotto sviluppo ma con uno stock di diseguaglianze considerevole e probabilmente sempre meno trattabile: nel 1990 si stimava che 93% dei poveri del mondo vivevano nei paesi meno sviluppati, oggi 3/4 di questi vivono in paesi mediamente sviluppati.
Certo, in molti casi funziona ancora l'effetto tunnel, e saranno ancora in tanti a pensare che si tratti solo di aspettare il proprio turno, a Luanda come a Guangdong, e tuttavia ci sono chiari segnali che una parte crescente pensa che quel turno non verrà mai. E del resto come dargli torto: anche nei paesi più industrializzati ad una fase di espansione e diffusione della ricchezza, è seguita una fase di concentrazione. Ed oggi la differenza fra chi guadagna molto e chi guadagna poco è aumentata rispetto a 40 anni fa, e le promesse di mobilità sociale sono state mantenute solo in piccola parte, se è vero che il grosso della mobilità è avvenuta per un solo gradino della scala, come dimostra ad esempio in Italia una ricerca della Banca d'Italia.
Insomma nel tunnel le cose non sono andate come speravamo e le file stanno scorrendo con una differenza di velocità sempre maggiore. Sarà bene fare attenzione perché più alte sono le velocità, più disastrosi rischiano d'essere gli incidenti.

3.2.11

Triangoli rosa in Africa

Un triangolo rosa, così venivano identificati nei campi di concentramento gli omosessuali tedeschi, internati perché il loro orientamento sessuale attentava all'obbligo di riprodurre la razza ariana.

Dal punto di vista statistico erano un gruppo assai più ridotto rispetto ai 6 milioni di ebrei, ai tre milioni di prigionieri di guerra sovietici, ai 2 milioni di polacchi non ebrei, al milione e mezzo di dissidenti politici, o alle centinaia di migliaia di rom e sinti e di disabili inviati alle camere a gas, tutti accomunati nell'orrore dell'olocausto, e tuttavia è bene ricordarsene sempre, perché è da quell'orrore che nascono molte delle convinzioni contemporanee sui diritti della persona, diritti non comprimibili in ragione delle necessità di un popolo o una razza.

Mi è venuta in mente quella stella perché il 26 gennaio di quest'anno, poche ore prima che nel mondo si ricordasse ancora una volta la Shoa, in Uganda veniva picchiato a morte David Kato, un attivista ugandese per i diritti degli omossessuali.

Kato era stato in prima linea nel contrastare una proposta di legge che in Uganda voleva introdurre la pena di morte per gli omosessuali, ed aveva appena vinto una causa legale contro un periodico che aveva pubblicato la sua foto assieme ad altri 100 uomini e donne, indicando che dovevano essere messi a morte per il loro orientamento sessuale.

Le indagini della polizia parlano di un omicidio da addebitare a qualche ladruncolo sorpreso a rubare, ma gli amici di Kato non hanno dubbi nell'indicare come le cause della sua morte siano da attribuire al feroce clima discriminatorio vissuto dagli omosessuali nel paese.

Ancora minori dubbi avevano avuto due anni prima gli amici e le amiche di Eudy Simelane, la calciatrice ed attivista per i diritte delle lesbiche stuprata ed uccisa il 28 April 2008 in Sudafrica.

Si trattava di un ennesimo episodio di quella che qualche tempo prima veniva analizzata e stigamtizzata dal Human Righst council come una pratica diffusa nelle township con assurde pretese "educative".

Le storie individuali di Kato e Simelane hanno conosciuto una certa notorietà internazionale, ma accanto a loro ci sono probabilmente decine di storie di discriminazione quotidiana non raccontate. Storie che ci ricordano come per una costituzione come quella del Sudafrica che bandisce la discriminazione sulla base di razza sesso ed orientamento sessuale, ci sono stati che prevedono pene severe per gli omosessuali, in alcuni casi fino alla pena di morte, e capi di stato come Mugabe che a suo tempo giustificò una sua crociata anti-gay con l'affermazione che l'omossessualità non faceva parte della cultura africana.

Un argomento difficile da affrontare ed un tema su cui non è facile riprodurre gli schemi classici della mobilitazione e solidarietà, quando non carità interessata, propri del nostro rapporto con l'Africa: qui non abbiamo da farci perdonare il colonialismo ne da proporre nuove forme di dominio. In questo caso le vittime non possono fare leva sul senso di colpa occidentale. Le radici della loro oppressione sono ben affondate nelle società di quei paesi.

Tuttavia quelle storie dicono molte cose anche a noi: intanto si parte dall'uso selettivo della cultura (in senso antropologico). L'affermazione di Mugabe non è isolata, anzi, è ben radicata in pezzi significativi della società africana.
Certo a chi obietta che "questa cosa non fa parte della nostra cultura" si potrebbe rispondere come era usa fare una mia amica femminista sudafricana a chi le diceva che non era parte della cultura africana che l'uomo lavasse i piatti,
- hai ragione - diceva - neanche guidare un'auto, sopratutto se di produzione tedesca (in Africa hanno sempre avuto un debole per le mercedes) fa parte della cultura maschile africana...-.

E tuttavia è indubbio che l'argomento della africanità è uno di quelli spesi più frequentemente, e se è vero che nel postcolonialismo la costruzione dell'identità africana aveva una sua rilevanza per definirsi positivamente rispetto al dominatore è abbastanza certo che quest'operazione poi offre pretesti a chi vuole giustificare ogni comportamento, dalla passione per gli autocrati (gli africani vogliono il potere emanare da un unico centro mi sono sentito dire qualche volta) ad appunto le discriminazioni quando non le persecuzioni degli omosessuali.

Accade anche dalle nostre parti, prima si cerca di delimitare il gruppo, poi di quel gruppo si cercano di estrapolare le cose che in quel momento ci interessano di più, che si parli di italianità, territori, ricette per la pizza o radici giudaico cristiane.

Il secondo elemento di riflessione è su quella che io definirei la "cattiveria dei poveri" che contrasta con invece la visione edulcorata del popolo che spesso abbiamo, ed in maggiore ragione del povero nei paesi in via di sviluppo.

Nel giro di un secolo nella percezione dell'occidente i popoli africani sono passati dall'essere i selvaggi da dominare o educare (nelle due versioni colonialiste e missionarie), ad essere, per gli osservatori più attenti e più dotati di empatia, portatori di stili di vita che abbiamo perso, sentimenti solidaristici, un approccio alla vita più naturale e rilassato e perché no, anche un ottimo senso del ritmo: insomma il mito del buon selvaggio riproposto a due secoli di distanza.

Ed è probabilmente vero che sia così, e tuttavia ci sfugge un aspetto: molte delle caratteristiche che invidiamo in quei popoli non sono necessariamente conseguenza di una superiorità morale, nonostante la bellezza della filosofia dell'ubuntu; quelle caratteristiche solidaristiche e comunitarie sono necessarie alla sopravvivenza in quel contesto, insomma o fare gruppo o perire. Dopo di che la stessa comunità che difende l'orfano della comunità, la stessa famiglia allargata fino al settimo grado, che fornisce le reti di sostegno ai membri più svantaggiati della comunità, può anche quella che organizza i raid per bruciare le presunte streghe del villaggio, o i negozi degli immigrati o appunto pratica l'esclusione di chi ha un'orientamento diverso dalla normalità percepita dalla comunità.

Insomma anche qua abbiamo un caso in cui gli stessi meccanismi che agiscono positivamente nella difesa del gruppo, producono effetti altamente discriminanti per chi non è percepito come parte dello stesso. Certo c'è da dire che storicamente lo scambio fra diminuizione del diritto ad una propria specificità e la protezione garantita dal gruppo in quei contesti è stato spesso vantaggioso, e tuttavia le storie di Kato e Simelane ci dicono che oggi quelle società debbono cambiare. Il problema è come renderlo possibile.

Purtroppo raramente i paesi hanno a disposizione l'opportunità di un momento costituente come quello avuto in nel 1994 dal Sudafrica, che portò alla promulgazione di un Bill of Rights che al suo articolo 10 recita "Tutti hanno intrinsecamente dignità ed il diritto che la loro dignità sia rispettata e protetta." Parole estremamente chiare, che purtroppo non hanno salvato la dignità e la vita di Simelane ma che danno il senso della volontà di quel paese nella rimozione delle discriminazioni.

Da parte nostra possiamo e dobbiamo ricordare a tutti, a partire da noi stessi, una frase che ha ispirato i movimenti riformatori di molte parti del mondo, Africa compresa, e che sottolinea che "una ferita ad una persona è una ferita a tutti". Ed agire di conseguenza.