30.6.11

Del pane e dei pesci

Pateka Mtintsilana è una sudafricana che dirige una piccola organizzazione di East London, nell'Eastern Cape.

Ho avuto l'opportunità di conoscerla qualche mese fa, in occasione di un suo viaggio in Italia per partecipare ad un po' di iniziative di presentazione delle attività della sua organizzazione.

Loaves and Fishes network, (la rete dei i pani e dei pesci) infatti opera anche grazie al contributo e sostegno di OXFAM Italia e Coop, ed è stato proprio ad una loro iniziativa che ho potuto sapere di più sul lavoro di Pateka.

Ad una lettura distratta delle iniziative della organizzazione non si vede molto che la differenzi dalle molte ong che si danno da fare per aiutare i bambini nei paesi in via di sviluppo. Ci sono gli asili, gli impianti sanitari, i pozzi, aiuti ai bambini sotto forma di vestiti e cibo e formazione degli operatori.

Tutte cose che chi si occupa di progettazione di interventi per l'infanzia conosce bene. Eppure c'è una particolarità nel lavoro di Pateka che mi ha colpito subito mentre me lo raccontava: loro non costruiscono nuovi asili, non avviano nuovi centri, non formano nuove persone, o almeno non è questo il loro obbiettivo principale. Loro partono da quello che già c'è, dalle strutture che ai livelli più poveri della società si sono formate per rispondere a necessità insopprimibili, e lavorano al miglioramento della qualità di quei servizi.

Perché la filosofia di Pateka e dei suoi colleghi è che in ogni comunità ci sono potenzialità che possono essere sviluppate.

Per essere più chiari: le statistiche ci dicono che in questa o quella baraccopoli informale non ci sono servizi scolastici, e la politica può confermarci che mai ci saranno, per motivazioni che possono essere di carattere economico come legate alla precarietà di insediamento magari destinati alla demolizione.

Eppure se ci addentriamo fra le baracche scopriamo che ci sono persone che hanno cura dei bambini della vicina quando è al lavoro, o che forniscono gratis, o più spesso a pagamento piccoli servizi educativi e di sorveglianza.

Quelli o assai più spesso quelle, perché l'Africa cammina quasi sempre con il passo delle donne, sono i soggetti destinatari dell'intervento di Pateka.

I contenuti educativi offerti sono spesso modesti, e vanno migliorati, le strutture sono fatsicenti e vanno riabilitate, i bambini sono poverissimi e vanno aiutati con il materiale scolastico e con il cibo.

L'organizzazione stipula accordi specifici con le strutture in cui vengono previsti interventi di formazione per gli operatori e per le strutture, ed obbiettivi di standard qualitativi da mantenere. E costruendo su quello che esiste e con attenti monitoraggi viene raggiunto un risultato positivo per tutti i soggetti coinvolti, compatibile con quello che c'è, sostenibile e ben lontano dalle tante cattedrali nel deserto che fanno parte del panorama dell'Africa.

E sopratutto ancora una volta scopriamo come in ogni contesto di persone ci siano risorse umane preziose su cui poter fare conto, e che spesso non c'è assolutamente la necessità di importarle.

Gli interventi di Loaves and Fishes sono stati recentemente indicati dal trust SOMAFCO (Solomon Mashlangu Freedom College) come miglior intervento in Sudafrica nel campo dell'educazione per la prima infanzia.

16.6.11

Soweto 16 Giugno 1976


Questa mattina pensavo a Lungi che lavorava con me nel progetto che ho seguito in Sudafrica dal 1993 al 2000.

Lungi aveva preso parte alle manifestazioni che videro il 16 giugno del 1976 ventimila studenti protestare contro il governo segregazionista sudafricano, e mi raccontò come nei mesi successivi a quel 16 giugno, per evitare di essere arrestato, avesse passato gran parte delle notti fuori casa.

Mi raccontò di come poi, ad appena 19 anni fosse fuggito all'estero assieme a molti suoi coetanei, per passare i 14 anni successivi da esiliato in giro per il mondo.

Il suo passaporto aveva visti di una dozzina di paesi diversi, sua madre avrebbe avuto sue notizie solo mesi dopo la liberazione di Mandela,quando l'ANC e le altre organizzazioni fino ad allora al bando furono autorizzate ad operare legalmente, e lo avrebbe rivisto solo nel 1991, quando i militanti dell'ANC all'estero rientrarono dall'esilio.

Molti però non tornarono mai, morti nei campi di battaglia dell'Angola o della Namibia, quei campi dove si erano combattute le guerre del bush, con cui il Sudafrica tentava di contrastare i movimenti antiapartheid, o morti di malaria, o degli stenti della vita da esiliati, morti come Mbuyisa Makhubo, il giovane che nella foto che fece il giro del mondo trasportava Hector Pieterson, la prima vittima della rivolta di Soweto. Mbuyisa di cui la famiglia perse le traccie poco dopo che fu costretto a lasciare il paese, come Lungi e come molti altri.

Nel 1997 con Lungi realizzammo un documentario radiofonico su June sixteen, come lo chiamano in Sudafrica. Intervistammo la famiglia di Mbuyisa, di Hector, e di molte altre vittime dell'apartheid. E Mano a mano che Lunge rintracciava le persone da intervistare, ci rendevamo sempre più conto che non stavamo ascoltando solo la storia di un paese, come a volte si trova scritta nei libri, ma stavamo registrando la storia scritta sulla pelle di Lungi e della sua generazione che quel 16 Giugno, ancora adolescenti, decisero di ribellarsi all'ingiustizia.

Recentemente mi è capitato di risentirlo: fa il giornalista e mi ha fatto piacere sapere che non ha perso la voglia di raccontare le storie del suo Sudafrica.

15.6.11

Che fine ha fatto l'Africa

Giusy si lamenta di come Republica.it affronta le tematiche africane. Nella sua lettera, riportata anche da Irene Panozzo, sottolinea la singolarità del fatto che tutte le notizie provenienti dall'Africa, anziché essere posizionate nell'area "Esteri", vengano collocate nello spazio "mondo solidale", quasi a sottolineare come dell'Africa si possa parlare solo come di quel continente dolente, produttore di guerre, carestie e profughi, ed il cui destino è essere solo recipiente della carità e pietà dell'occidente.

Difficile darle torto, anche se, come fa notare Irene, almeno a Repubblica va riconosciuto il merito di tentare di narrare una parte importante della nostra relazione con il mondo, quella appunto che si manifesta con la solidarietà e l'empatia.
Ma va detto che il problema con tutta probabilità va assai oltre alla percezione che abbiamo dell'Africa. Purtroppo l'attenzione che l'Italia ha per le questioni internazionali è residuale e comunque legata troppo spesso alla capacità di riposizionare la mappa del mondo secondo quella che è la mappa politica italiana. Insomma se al tempo dello "scramble for Africa", nel tagliare a fette il continente, la mappa cui guardavano le potenze coloniali era quella europea, in Italia nell'opinione pubblica la politica internazionale è sempre stata declinata guardando alla geografia di Montecitorio.

Per non parlare poi dei guasti dell'informazione spettacolo, dove il messaggio non è raccontare cosa succede ma dare al pubblico quello che si aspetta, per cui guerre e carestie dall'Africa per le hard news, documentari del National Geographic per i programmi di intrattenimento, ed una spruzzata di missionari per farci sentire buoni. Tutto quello che esula da questo viene espunto rapidamente perché "l'Africa non tira", come si sentì dire un mio amico qualche anno fa, mentre stava proponendo alla RAI del materiale video su una alluvione in Mozambico.

Ma a quanto pare la necessità di classificare l'Africa in un contesto ben definito non è solo un fenomeno italiano, raccontava in una conferenza qualche tempo fa Maaza Mengiste, scrittrice etiopico-statunitense che per la copertina di un suo libro la cui trama si svolgeva nel contesto urbano di Addis Abeba nel trapasso da Hailé Selassie al Derg, l'editore USA aveva predisposto una copertina con la classica ambientazione rurale con tanto di capanna e c.

Insomma parliamo di globalizzazione ma a quanto pare per adesso di globale pare esserci la diffusione dell'ignoranza degli altri, a Roma come a New York, a Sidney come probailmente a Pechino.

Ma torniamo alla nostra Africa, perché Giusy ha ragione, è un grande continente, dove c'è molto di più di quanto ci viene raccontato, e probabilmente anche ciò che ci viene raccontato è comunque deformato nell'interpretazione.

Un grande continente dove stanno succedendo cose cui sarebbe bene prestare attenzione, e che con tutta probabilità influiranno anche sulle nostre vite.

E già perché ad esempio pochi mesi fa abbiamo scoperto che i giovani tunisini ed egiziani, anziché passare, come ci veniva detto, le loro giornate a prepararsi per la Jihad, chattavano e si mandavano sms per organizzare una rivoluzione gentile. E sono abbastanza certo che pochi sanno che, secondo alcune stime, da poche settimane gli utenti africani della telefonia cellulare hanno superato in quantità gli utenti europei (il nord america era stato sorpassato a fine 2010). Insomma sono lontani gli anni in cui chi voleva far colpo sulla platea esclamava con tono grave che c'erano più telefoni a New York che in tutta l'Africa, o che molti africani non avevano mai fatto una telefonata in vita loro (ricordo erano ad esempio i cavalli di battaglia della del Walter Veltroni anni 90'...).

Per inciso grazie alla diffusione dei telefonini sono nati una quantità di servizi notevoli basati su sms e c. che noi ci sognamo: uno fra tutti il servizio di trasferimento di denaro a mezzo sms M-pesa che in Kenia ha oltre 8 milioni di utenti. Oppure sono state messe a punto iniziative poi esportate altrove, come la piattaforma software ushahidi, messa a punto per poter monitorare le violenze post elezioni 2008 in Kenia, usando i telefonini di decine di volontari.

E chissà che da questi telefonini non nascano altri movimenti.

Oppure sarà l'economia a muovere il continente, quella economia che ha portato pochi giorni fa in Sudafrica ad una riunione di capi di stato e di governo di 26 dei 54 stati africani con all'ordine del giorno la formazione di un mercato unico.

O magari sarà il grande attivismo delle nuove emergenti potenze economiche a cambiare le cose, anche se non necessariamente in meglio. L'attivismo di Cina, India, Brasile, che si stanno muovendo molto nello scacchiere africano, e che poche settimane fa hanno cooptato anche il Sudafrica nel gruppo informale BRICS, quel gruppo di economie che rappresentano una quota crescente del prodotto mondiale. E chissà che fra qualche anno non ci si trovi a constatare un po' sorpresi come nella mappa delle alleanze economiche che contano, per produzione, mercati e approvigionamento di materie prime, i paesi africani avranno scelto altri.

Certo c'è la politica africana, a volte incomprensibile, altre fin troppo chiara, e tuttavia troppo spesso banalizzata, perché l'Africa è molto di più della somma dei suoi dittatori ed autocrati.

Ma di tutto questo si leggerà poco o nulla sulle pagine dei giornali italiani, troppo più semplice continuare a descrivere l'Africa con le sue capanne, le sue guerre e la sua necessità di assistenza. Troppo più semplice per chi non ha voglia di capire.