17.6.09

Un Americano tranquillo

Molti anni fa Graham Greene tratteggiava nel suo romanzo "the quiet american" il contrasto fra la personalità cinica del protagonista Fowler, un giornalista oramai avezzo a vederene di cotte e di crude ed interessato solo all'oppio ed alla sua giovane amante, ed invece l'americano Pyle, giovane idealista ed agente della CIA, che tentava di applicare nella sua prima missione all'estero le tesi del politologo americano di cui era appassionato sostenitore. Nel romanzo l'americano ci rimette rapidamente le penne, anche se non sono le sue posizioni politiche la causa scatenante il processo che porterà alla sua morte.

Il romanzo è stato letto in molti modi, anche perchè la sua ambientazione nel Vietnam precedente all'intervento Usa in Indocina consente di vedere molti dei temi che hanno caratterizzato un conflitto che ha influenzato per anni l'occidente. Non solo: la certezza che opzioni, idee o fissazioni geopolitiche elaborate a migliaia di km di distanza e dal fortissimo contenuto ideologico influiscono pesantemente sulla scelta o meno di avviare una guerra, è tornata prepotentemente alla ribalta durante la presidenza di George Bush. Ancora una volta con gli Usa principali attori.

Ma non è di questi tranquilli americani che voglio scrivere. Voglio invece affrontare il tema della stupidità ed arroganza che a volte sta nascosta in coloro che magari pensano di essere dalla parte giusta perchè impegnati in una delle tante cause umanitarie o campagne di sensibilizzazione contemporeanee: gli "americani tranquilli" della comunità umanitaria.

Comnciamo da un nome John William Yethaw. Qualche settimana fa ha attraversato a nuoto il lago che separava dalla terra ferma l'abitazione dove abitava la premio nobel per la pace Aung San Suu Kyi, per incontrare di persona una donna di cui ammirava il coraggio e su cui stava scrivendo un libro. Per gli appassionati di cose religiose possiamo anche aggiungere che fra gli obiettivi c'era anche omaggiare la signora di una bibbia mormone. Il risultato è stato che il regime di Myamar ha colto la palla al balzo per incriminare Aung San Suu Kyi per violazione della norma sui domiciliari.

Ovviamente non dobbiamo nascondere l'odiosità del regime di Rangoon che ha imputato ad Aung San Suu Kyi un atto di cui lei non ha nessuna responsabilità, e tuttavia l'operato del nostro americano ci illustra in maniera egregia un approccio ai temi dello sviluppo e dei diritti umani che dovrebbe essere evitato e che ahimè vede molti proseliti. Nel caso specifico poi la stupidità ci ha messo del suo, ma rimane il fatto che è proprio l'approccio che è errato: i punti di tensione nel mondo non vengono risolti da atti più o meno eroici di questo o quel protagonista occidentale, o dall'interventismo umanitario esterno.

Conta molto di più la forza dei suoi cittadini e le capacità che questi hanno di resistere all'oppressore, tanto per citare uno dei diritti contenuti nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789.

Mi chiedo spesso quante siano le organizzazioni nate attorno alla volontà assolutamente legittima di fare qualche cosa per rendere il mondo migliore, e che tuttavia in realtà peggiorano le cose. Dai progetti che creano dipendenza, alle iniziative che creano differenze all'interno di comunità assai omogenee, per non parlare delle cause nobili che offrono spazio ad attori più o meno ignobili, come ad esempio nel caso del Darfur, dove con l'accrescersi della notorietà della crisi, accanto ai gruppi storici dei darfuriani è nata una filiera di soggetti legata allo sfruttamento economico del conflitto.

Ma allora dobbiamo assistere immobili a genocidi, massacri e c.? La risposta è ovviamente no. Ma cominciamo intanto a depurare il nostro spirito umanitario delle scorze date dalla voglia di protagonismo da colonialismo buonista.

Non credo infatti che ci sia molta differenza fra chi predicava la superiorità del cristianesimo nell'ottocento, e lo imponeva sui "poveri selvaggi" che dovevano ancora conoscere lo sviluppo e l'atteggiamento di chi ritiene che le nostre dottrine politico-economiche (qualunque esse siano) posso essere applicabili ovunque, ovviamente sotto la nostra supervisione.

Probabilmente scopriremmo che proprio grazie alle nostra capacità di interagire con soggetti di cooperazione invece che considerarli oggetto delle nostre azioni ci offre un ventaglio di possibilità.

Cominciamo con Aung: intanto prima di cercare di entrare in contatto con lei "l'americano tranquillo" avrebbe fatto meglio a cercare di sentire i rappresentanti delle organizzazione burmesi che fanno riferimento a lei, e sicuramente avrebbero sconsigliato la nuotata.

E poi avrebbe potuto provare ad influenzare nel suo paese le diverse aziende che fanno affari in birmania promuovendone il boicottaggio. infine c'era sempre l'arma politica, ovvero le pressioni su deputati e senatori perchè abbiano una politica di attenzione nei confronti di ciò che avviene in quel paese.

C'e' poi da aggiungere come uno degli aspetti più interessanti di questi ultimi anni è l'effetto dirompente delle interazioni fra paesi.Gli effetti delle crisi economiche, ed in misura ahime' minore, la prosperità, si propagano rapidamente da paese a paese, ed è evidente che la crescita delle soggettività interne agli stati diventa un elemento essenziale nelle dinamiche dello sviluppo. Per intendersi: la politica nucleare iraniana e le sue relazioni con le paure dell'occidente dipenderanno assai più dall'esito dello scontro successivo alle elezioni che non dai diktat USA.

Il capitalismo antidemocratico asiatico deve continuamente fare i conti con i movimenti che nascono dalle nuove diseguaglianze, e se Pechino protegge Rangoon e ricatta Washington in quanto intestataria del debito pubblico USA, non e' detto che il sistema riesca a reggere in eterno perchè non è detto che le condizioni interne a quei paesi rendano sempre sostenibile questo supporto.

E a casa nostra? Parliamo meno di diritti umani e più di doveri delle aziende occidentali che investono nel mondo. Parliamo di diritti sindacali, parliamo di consumo etico, parliamo di un mondo dove non servono eroi più o meno improbabili, ma persone che nella loro vita si comportano responsabilmente.

Alcune di queste persone magari andranno anche a lavorare all'estero, ma prima di attraversare un braccio di lago si informeranno bene, perchè in ogni parte del mondo ci sono donne e uomini che conoscono ed amano il loro paese, donne e uomini che amano il mondo come il loro paese, donne e uomini che vale la pena di ascoltare.

1.6.09

Aiuti allo sviluppo

Quando si parla di aiuti allo sviluppo ogni tanto qualcuno propone una bella frase ad effetto, ovvero che questi sovente non sono altro che il trasferimento di risorse dai poveri dei paesi ricchi ai ricchi dei paesi poveri. Con questa frase viene sottolineato come troppo spesso la cooperazione allo sviluppo sia servita ad arricchire autocrati e dittatorelli a giro per il mondo.

La frase è vera ma nasconde varie insidie,la prima è data dalla generalizzazione: gli aiuti allo sviluppo sono una galassia caratterizzata da attori di ogni tipo e dal modus operandi e obiettivi a volte antitetici: difficile mettere sotto lo stesso cappello l'operato di missionari di varie fedi o di organizzazioni di volontariato laico con l'operato di governi attenti all'impatto geopolitico dell'intervento d'aiuto, così come paragonare l'impegno di piccole organizzazioni non governative con quello delle grandi strutture del sistema delle nazioni unite.

La seconda insidia è che può servire da alibi per autoassolverci rispetto al modo con cui in questi ultimi anni è stato affrontato in Italia dal governo il tema degli aiuti allo sviluppo, un modo che ha visto gli aiuti decrescere rispetto agli impegni presi in sede internazionale (ci sarebbe anche da discutere sulla qualità di alcuni interventi rubricati quale aiuti ma il ragionamento ci porterebbe lontano).

La terza insidia è che questa frase può racchiude un sottointeso velenoso, ovvero quello che sottolinea quanto siano buoni ed a volte ingenui i bianchi, che mantengono i cattivi dei paesi in via di sviluppo pensando di aiutare i poveri digraziati.

Infine l'insidia dell'ommissione: i fili di gran parte dei processi che hanno portato alla verità evidenziata dalla frase vengono assai spesso tirati dai ricchi del mondo ricco, dove hanno sede le banche che ospitano i conti correnti dei vari dittatori, dove (almeno in Italia) i ricchi non contribuiscono adeguatamente alla fiscalità dello stato che finanzia una parte significativa degli aiuti, ed infine dove vengono effettuate le valutazioni geopolitiche che portano a privilegiare certe partnership su altre. Tanto per restare a casa nostra la legge 49 del 1987 che disciplina la cooperazione la definisce, al suo articolo 1 "Parte integrante della politica estera dell'Italia".

Detto questo tuttavia non è possibile nascondere l'inefficacia, almeno nel caso dell'Africa, della cooperazione allo sviluppo. In sostanza il continente africano dopo decenni e miliardi di dollari di aiuto ha visto diminuire in modo consistente il suo peso nel contesto mondiale. Scrive Loretta Napoleoni http://lanapoleoni.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2258766) "Gli aiuti all’Africa non hanno funzionato, su questo tutti concordano. In Asia, invece, dove questi aiuti non sono mai arrivati in quantita’ analoghe abbiamo oggi un tenore di vita molto piu’ alto che 50 anni fa’."

L'articolo citato della Napoleoni prende le mosse dal contenuto di un libro uscito recentemente e che ha suscitato molte discussioni nella comunità umanitaria, sopratutto in quella impegnata in Africa. Il libro "Dead Aid - Why Aid Is Not Working and How There Is a Better Way for Africa" di Dambisa Moyo, ha attirato immediatamente le attenzioni degli operatori non solo per le tesi sostenute ma anche per la biografia dell'autrice, una economista africana con studi nelle migliori università inglesi ed americane ed una esperienza di 8 anni di lavoro alla Goldman Sachs.

L'analisi della Moyo che ci presenta la Napoleoni non è nuova, e parte dal fallimento degli aiuti allo sviluppo dell'occidente. Di questo tema avevano già parlato negli anni fra gli altri Graham Hancock con il suo "Lords of poverty" e William Easterly in "the white man burden", e tuttavia lo scritto della Moyo è interessante perchè è il punto di vista di una donna africana, anche se con una formazione rigorosamente occidentale. In particolare degno di nota il fatto che la Moyo guardi in modo positivo all'esempio cinese ed all'approccio cinese al continente africano http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/05/18/dambisa-moyo-denuncia-gli-aiuti-salvano-dittatori.html. Interessante perchè è un tema al centro del dibattito politico africano in quanto i cinesi con la loro proposta di partnership economiche e non di aiuti hanno toccato le corde di molti leader africani.

Non vi è dubbio quindi che la attenzione che la Moyo dedica al tema delle relazioni sino-africane sia ben motivata, e tuttavia ci sono a mio avviso dei punti deboli nel ragionamento che presenta la soluzione come investimenti su una filiera basata su piccola impresa, microcredito, e sviluppo delle imprenditorie locali, sviluppo oggi reso impossibile ad esempio dalle burocrazie africane. Una filiera che assieme alle partnership economiche, come quelle che si stanno sviluppando con le imprese cinesi sarebbe destinata a eliminare definitivamente gli autocrati con conti in Svizzera.

Un primo punto debole è dato dalla fiducia a mio avviso eccessiva nel fatto che buone pratiche economiche generino naturalmente buone pratiche politiche...E' sicuramente vero che un paese con una distribuzione più equa del benessere è più stabile di un paese con grandi ineguaglianze, e pertanto la diffusione del benessere genera stabilità, e tuttavia se il processo parte da partnership economiche non è detto che questo genererà un ricambio della classe dirigente, anzi, chi investe dall'estero tende a privilegiare la sopravvivenza politica dei suoi partner politici nel paese.

E' infatti vero che gli imprenditori sono tendenzialmente filogovernativi e quindi lo saranno a maggior ragione in presenza di governi autoritari o dove le opposizioni hanno scarse garanzie. E' evidente quindi che sarà la forma attuale della società politica a definire le modalità degli investimenti e anche delle politiche connesse. Non è un caso ad esempio che gli investimenti petroliferi cinesi in Sudan siano accompagnati anche da un sostegno al governo sudanese attuale nel consiglio di sicurezza dell'ONU.

Quanto alla filiera...Viene giustamente rilevato che quando per aprire una attività in Africa occorrone 2 anni ed in molte parti dell'occidente pochi giorni, non vi è dubbio che vi siano dei svantaggi competitivi consistenti. Tuttavia la povertà è una trappola da cui non si esce in assenza anche di un sistema politico e finanziario che favorisca l'avvio di attività, e questo è per l'appunto quello che una parte, quella migliore degli aiuti internazionali hanno provato a fare.

Rimane poi l'ultimo aspetto. Siamo sicuri che la politica di aiuti sia fallita perchè concettualmente sbagliata e non perchè semplicemente fatta male ed incoerentemente?

Per essere chiari: difficile pensare ad uno sviluppo della zootecnia africana quando un etto di burro prodotto in Europa può essere venduto sui mercati africani ad un prezzo più basso di quello locale grazie ai sussidi agli agricoltori europei, tanto per parlare di coerenza (non so se sia ancora così ma ricordo anni fa che in un paese con una zootecnia d'eccellenza come il Sudafrica il burro più economico veniva dall'Irlanda).
Quanto alla qualità: e' indubbio che al donatore ed al governante apparire nelle foto delle inaugurazioni di un megaimpianto o di un ospedale fa molto più effetto che tagliare il nastro all'inaugurazione di un mulino rurale o organizzare la formazione di medici per posti di salute, ma quale intervento ha un maggior impatto, anche sulla coscienza delle comunità rurali come portatrici di diritti, primo passo per l'emancipazione anche politica?

Perchè alla fine è questo il tema, e su questo sono certo concordano anche i seguaci delle teorie più neoliberiste: la società si emancipa da dittatori ed autocrati solo se ha una coscienza dei suoi diritti civili ed economici, e questo in Africa deve ancora avvenire pienamente sia nelle baraccopoli delle grandi città che nelle comunità rurali più remote. Non credo che proposte come quella shock della Moyo di congelare gli aiuti per 5 anni sia utile a sviluppare questa coscienza, serve invece orientare assai meglio gli aiuti, passare dagli interventi più o meno caritatevoli, di una carità spesso interessata, ad interventi tesi a costuire e rafforzare le soggettività.

Per concludere: fintanto che per un governante africano sarà più importante l'opinione del suo finanziatore (o partner in affari) che quella del suo elettore, rimangono aperte le possibilità di sprechi, malversazioni o irrilevanza dell'investimento ai fine della lotta alla povertà.