26.4.11

Rivolte nazionali e cospirazioni internazionali

Capita in questi tempi di rivoluzioni arabe di sentire ogni tanto qualche voce dissonante, che con il tono di chi la sa lunga, racconta dei molteplici intrighi che hanno favorito qua e la le esplosioni di rabbia nei paesi arabi.


La tesi che viene sostenuta, con dovizia di dettagli, è quella della rivoluzione "pilotata" dagli interessi volta volta di USA, Francia, Gran Bretagna, quando non Arabia Saudita, al Jazeera o i cartelli petroliferi medio orientali.


E' una tesi particolarmente cara a chi si oppone alla guerra in Libia, quasi che individuare un sinistro agente esterno renda più facile capire cosa fare per far terminare il massacro.

Purtroppo non è così, perché a spiegare cosa sta avvenendo non è sufficiente trovare chi beneficia da un conflitto, o scoprire che i servizi di questa o quella potenza oggi impegnate in prima persona, ieri lavoravano dietro le quinte. Non è sufficiente perché ad esempio non spiega affatto come mai nel caso della Libia, dove erano probabilmente decenni che qualcuno ci provava, la rivolta è scoppiata solo ora.

E lo stesso si può dire per Egitto, Tunisia, Siria, Iran. La realtà è che l'attore principale delle rivolte non sono i servizi segreti,  o le trame ed interessi dei signori delle materie prime, ma sono le persone che scendono in piazza, o che innalzano le barricate. Ed i motivi principali per cui scendono in piazza hanno spesso poco a che vedere con le trame di cui sopra, che pure probabilmente esistono, ma molto con la miscela che si produce quando le condizioni di vita diventano intollerabili e nella società circola sempre più insistemente l'idea che ribellarsi non solo è giusto, ma anche possibile, e che vincere si può.

Ridurre tutto al gioco dei servizi e degli interessi di questa o quella potenza o gruppo di pressione è piuttosto meschino e pure rischioso in quanto  capire i molti perché di una rivolta popolare è essenziale a trovare possibili soluzioni.

Ma forse accade perché è complicato orientarsi nella babele di istanze e aspirazioni di un popolo in rivolta. Un magma dove convivono persone provenienti da ceti diversi, con aspirazioni, culture, sogni ed obiettivi anche contradditori. Dove accanto all'icona di Che Guevara sfila la ragazza con il velo, dove con Ghandi convive la mitologia dell'AK47. Troppo più facile sperare in qualche cosa che riduca tutto a qualche cosa di più leggibile: la CIA, un generale, un predicatore o un guerrigliero carismatico.

Non  è dato, ed eccoci qua costretti a districarci fra twitter e muezzin, tra istanze tribali e giovani appassionati di rap, senza nemmeno le certezze che venivano dalle passate illusioni che la colpa fosse sempre di pochi e il futuro appartenesse alla nostra moltitudine.

18.4.11

Corruzione morale

Il video che rivendicava il rapimento di Vittorio Arrigoni lo descriveva come "uno che entra nelle nostre case portandoci la corruzione morale" propria dell'occidente.

Un video realizzato con moderne telecamere e fatto circolare utilizzando la occidentale internet.

Una delle caratteristiche del fanatismo è quello di arrogarsi il diritto di scegliere per altri cosa è puro e cosa no.    

15.4.11

Vittorio Arrigoni


Dice Miriam: "TUTTI NEMICI DI TUTTI.... INUTILE FAR FINTA". E' la sua immediata reazione alla notizia della morte di Vittorio Arrigoni.

E per Miriam che piange, e con lei molti di noi, ci sono invece coloro che magari dentro di loro pensano che in fondo se l'era cercata, perché gli arabi sono così, perché questa è la loro natura. Magari sorridendo perché dopo settimane di articoli sul rinascimento arabo non ne potevano più di vedere le loro certezze razziste messe in discussione. Basta leggere le orribili due righe con cui un sito statunitense filoisraeliano commenta la morte di Arrigoni: "In una classica dimostrazione di gratitudine araba è stato assassinato da terroristi arabi, arrivederci Arrigoni."

Il pianto di Miriam è il pianto invece di chi ritiene che è possibile pensare ad un altro mondo, e che è possibile farlo perché ci sono persone che si danno da fare perché questo avvenga. E la morte di Vittorio Arrigoni invece ci mette a confronto con una realtà ancora più dura di quella che già pensavamo insopportabile.

Ma non vi è dubbio che nella nostra reazione emotiva vi è un aspetto particolare e che vorrei affrontare perché ancora una volta riconducibili alla divisione fra "noi" e "loro".

Non vi è dubbio che quello che colpisce della morte di Vittorio è che a colpirlo è stata la mano di coloro che erano l'oggetto del suo impegno, come in un'altro episodio che mi è venuto in mente in queste ore e che avvenne 18 anni fa quando in una Township sudafricana fu uccisa Amy Biehl.

Insomma pensiamo a Vittorio come ad uno dei "nostri" che era andato altrove per aiutare "loro". Una presenza che fra l'altro che ci aiuta ad autoassolverci parzialmente delle nostre vigliaccherie perchè uno dei "nostri" era la. E "loro" sono un insieme indifferenziato incapace di essere riconoscente a chi viene in soccorso.

Tuttavia la realtà è secondo me assai più articolata, Vittorio, come Amy non si sentivano probabilmente altro rispetto alle comunità in cui si trovavano, e la loro morte fa parte di una catena di eventi che hanno visto morire tante persone per bene come Vittorio, solo con nomi arabi, cosi come tanti uomini e donne con nomi xhosa, zulu e tswana sono morte prima di Amy negli scontri nelle Township sudafricane. Tutti morti perché figli di un paese da pacificare.

Insomma mentre pensiamo a chi ha fatto tanta strada per andare a lavorare nel paese dove avrebbe incontrato i suoi assassini, cerchiamo di imparare anche i nomi di chi stava al suo fianco, o di chi è caduto prima di lui. Perché in quei paesi ci sono società composte da santi e da criminali, da persone per bene, da eroi e da fanatici. E dobbiamo e possiamo continuare a provare a pacificarle e sostenere chi ci prova.

Del resto è stato in gran parte possibile in Sudafrica, dobbiamo fare in modo che sia possibile ovunque.

14.4.11

A proposito di un dibattito cui ho partecipato

"Mediterraneo: qualcosa è cambiato? Libertà, speranze, guerra, petrolio"

Il tema era stimolante e la sala piena, più di quanto era lecito aspettarsi per un mercoledì sera. Forse un segno di tempi in cui si cerca di orientarsi su un orizzonte troppo a lungo dimenticato.

E come accade quando si riapre un libro abbandonato da tempo, occorre tempo per ricostruire il filo della storia, capire i personaggi, immaginarsi la trama futura. E' stato così anche Mercoledì 13 aprile scorso in una Casa del popolo di Scandicci.

Occorrerà tornarci su quel tema, per quel che abbiamo detto e sopratutto per quel che per motivi di tempo non abbiamo detto.

Io ad esempio avrei voluto parlare di più di come questo mediterraneo non è solo lo specchio d'acqua che ci separa dalla sponda sud, da quell'Africa che troppi non sanno descrivere con parole diverse da quelle con cui si parla di un malato terminale.

Avrei voluto parlare invece di più del mediterraneo come specchio solcato dalle migliaia di navi che attraversato il mar rosso ci mettono in contatto con i terminali petroliferi della penisola araba, con i centri manufatturieri dell'India, con la potenza produttiva della Cina.

Questo mediterraneo. Di cui l'Africa è sponda, ma anche questo mar Rosso di cui l'Africa è sponda, e l'oceano indiano, di cui l'Africa è sponda.


E quest' Africa che è molto di più e di diverso dal luogo dolente del "si salvi chi può", della marea umana di migranti, delle epidemie e delle carestie. Un continente  che  troppi pensano meriti solo compassione, fra l'altro assai spesso interessata.

E avrei voluto ricordare, ma non ce n'è stato il tempo, come nei giorni in cui noi discettavamo su profughi si o no, su Francia e Nato, sulla natura del conflitto libico, in Cina si teneva un vertice fra 5 paesi che rappresentano oggi il 40% della popolazione mondiale ed il 30% del prodotto mondiale.

Brasile, India, Cina e Russia si sono, guarda caso, astenuti sulla mozione delle Nazioni Unite che dava il via libera alla no-fly zone in Libia, e il quinto paese, il Sudafrica, da poco entrato nel gruppo, aveva votato a favore della mozione ma era anche stato promotore nei giorni successivi di un tentativo mal riuscito di mediazione in Libia.

Insomma nuovi attori, probabilmente ancora timidi nei loro passi sulla scena politica internazionale, ma intenzionati a farsi intendere.

E sarà bene fare attenzione a quello che dicono perché rappresentano un bel pezzo del pianeta, e che grazie ad investimenti e politica delle alleanze sta disarticolando vecchie appartenenze post coloniali.

Una nuova geografia dei poteri fra stati, che la crisi libica evidenzia con chiarezza, ed una nuova geografia dei soggetti  negli stati, di cui abbiamo parlato tanto, ma forse dovremmo parlare di più, perché per capire le rivolte non è sufficente ricordare la popolazione giovanile del maghreb, la disponibilità di mezzi di comunicazione e le crisi alimentari, occorre anche capire cosa sta cambiando in quelle società.

Capire come entrano in discussione le gerarchie, i rapporti familistici e di clan. Perché certo sono forti, della forza che hanno tradizioni antiche, e tuttavia con l'inurbamento si modificano i luoghi della riproduzione delle culture ed appartenenze antiche vengono affiancate da nuove militanze.

Nuovi condizioni di vita  e di istruzione e nuovi strumenti di comunicazione realizzano comunità diverse, con stratificazioni orizzontali per età, interessi e codici di comunicazione che danno luogo a comportamenti assai più articolati rispetto a quello portati dalla strutturazione  verticali della società rurali e a base clanica.

Come agisce tutto questo nella società? quanto cambia nei comportamenti l'appartenenza ad un sindacato o ad un gruppo facebook rispetto alle vecchie appartenenze ad un villaggio o ad un clan? E in che misura queste nuove appartenenze influiscono sulla diffusione delle opinioni? Insomma occorre uscire dal paradigma interpretativo per cui in un mondo in cui tutto si muove, a rimanere stabili sono solo le vecchie gerarchie.

Certo non è detto che tutto quello che cambia sia buono per noi, anzi, ma è certo che  quello che sta accadendo dall'altra parte del mediterraneo influirà anche sul nostro futuro.

Sarà bene parlarne ancora. E sarà sopratutto importante darsi da fare. Mettere la testa sotto la sabbia, o erigere muri non ha mai funzionato a lungo.

12.4.11

I mocassini degli altri

Qualche giorno fa i giornali italiani riportavano l'ennesima cronaca di un episodio di razzismo ad un evento sportivo.

Questa volta era stato un gruppetto sparuto di spettatori di una partita di pallacanestro ad aver usato il riferimento al colore della pelle come mezzo per offendere una giocatrice della squadra avversaria.

Non è la prima volta ne sarà l'ultima, e del resto nel mondo dello sport, con buona pace degli ideali di lealtà e correttezza, quella di fare il possibile per innervosire l'avversario è una delle pratiche ricorrenti sugli spalti ed ahimè anche sul campo.

E non c'è da stupirsi se il colore della pelle viene immediatamente preso come pretesto, sopratutto in tempi in cui ossessioni identitarie e timori per lo straniero percorrono in lungo e largo la penisola.

Solo che non stiamo parlando di stranieri, stipendiati, che come ebbe a dire una volta Ruud Gullit, sono tollerati perché tanto se ne andranno: Abiola Wabara, l'atleta insultata di cui sopra è cittadina italiana, come sono cittadini italiani Mario Balotelli e Stefano Okaka, ed i campi sportivi d'Italia sono sempre più caratterizzati da atleti italiani a tutti gli effetti anche se con genitori provenienti da altri paesi.

Ed è l'insieme della società ad essere come quei campetti, e lo sarà sempre di più. Perché è quello che accade nei paesi industrializzati che nel corso degli anni hanno importato mandopera.
Un recente studio dell'ufficio statistico USA ha calcolato che il 93% della crescita della popolazione degli Stati Uniti è dovuta alla crescita nei gruppi considerati "minoranza" (i censimenti USA rilevano anche il gruppo di appartenenza e da qualche anno permettono anche di indicarne più d'uno). Addirittura si prevede che fra non troppi anni la popolazione bianca "anglo-sassone" sarà superata da quella proveniente dagli altri gruppi (ispanica, afroamericana etc.). Insomma l'America della enorme middleclass bianca, del baseball e della torta di mele cambia progressivamente in qualche cosa d'altro.

Non è molto difficile prevedere qualche cosa di simile anche dalle nostre parti, e del resto basta visitare un reparto maternità per accorgersene, e non perché gli immigrati fanno più figli, magari per conquistare qualche agevolazione, come ogni tanto sussurra la propaganda razzista, ma molto più semplicemente perché una popolazione giovane mette su famiglia non appena le condizioni fanno sperare in una qualche stabilità, e la maggior parte degli immigrati arrivati da noi sono relativamente giovani.

Ma torniamo ai campetti sportivi...E' certamente facile usare un tratto somatico per offendere una persona, e magari qualcuno di quegli imbecilli pure penserà che in fondo non stanno ammazzando nessuno.

Forse avremmo avuto bisogno anche da noi di persone come Jane Elliot, una insegnate Usa che all'indomani dell'assassinio di Martin Luther King anziché fare una lezione astratta sul razzismo fece un esercizio pratico sulla discriminazione con i suoi ragazzi.

Era probabilmente troppo difficile spiegare loro, che vivevano in una piccola comunità bianca dello Iowa, cosa volesse dire avere la pelle nera: ed allora disse semplicemente che era provato che le persone con gli occhi scuri se la cavavano meglio di quelli con gli occhi azzurri, salvo poi correggersi il giorno dopo dicendo che si era sbagliata e che erano i secondi a cavarsela meglio: i risultati furono piuttosto sconvolgenti, e quando al terzo giorno ai ragazzi fu detto che non era vero ma che avevano tutti potuto capire cosa significava essere discriminati per un tratto somatico, questi furono non solo sollevati ma anche grati per l'esperienza fatta.

Un documentario (in inglese) sulla ripetizione dell'esercizio fatta qualche tempo dopo si trova qui.

Negli anni per giustificare chi criticava il suo approccio Jane Eliot citava il vecchio detto sioux in cui si fa appello al grande spirito perché preservi dal giudicare un uomo prima di aver camminato nei suoi mocassini.

Sono in tanti quelli che oggi dovrebbere provare a camminare nei mocassini di Abiola Wabara, Balotelli, Okaka e dei tanti altri giovani italiani che per passione o per lavoro giocano negli impianti sportivi italiani, ma sono abbastanza certo che li troverebbero molto scomodi.

7.4.11

Il nostro cortile

"Una crisi come quella libica ma dimenticata" scrive il Fatto Quotidiano, ed in effetti è così: scontri feroci ma poca attenzione alle nostre latitudini. E l'esistenza di un conflitto che non risparmia i civili non è l'unica cosa che accomuna le due guerre, in ambedue i conflitti è infatti ben presente la Francia a sostegno di una delle parti. Ed in ambedue i casi l'azione avviene con un qualche avvallo delle Nazioni Unite.


La nostra indifferenza viene spesso portata a riprova del cinismo occidentale, più interessato a petrolio e sicurezza che ai diritti umani a latitudini lontane.


E' una osservazione giusta, e tuttavia temo sia estendibile ben oltre ai soliti colpevoli. Come non notare il fatto che la frase "e la costa d'Avorio" sia usata appunto come espediente retorico e non come programma di azione e mobilitazione?

Insomma gli organizzatori delle manifestazioni del 2 aprile lo hanno fatto per protesta contro la guerra in Libia pur ricordando di essere  contro la guerra tout court.


Certo si sa che gli obiettivi astratti non funzionano, ma allora perché non sfilare per Libia e Costa d'Avorio?


Una risposta immediata potrebbe essere che nella guerra libica ci siamo anche noi, mentre in Costa d'Avorio no. Ma allora non saranno le cose un po' più complicate ed intrecciate, percui accanto ai nostri giudizi etici e di principio intervengono anche elementi che rimandano direttamente alla nostra quotidianità?


Temo insomma che ancora una volta si dimostri la realtà del nostro paese, dove qualsiasi questione di politica internazionale viene rimodulata in chiave nazionale per riproporla già predigerita fra i pochi temi che da decenni sembrano interessarci, temi fra cui cito a caso le dinamiche fra maggioranza ed opposizione, le dinamiche fra opposizione radicale ed opposizione moderata, il ruolo della chiesa.


In questo quadro le persone che abitano il mondo di fuori fanno da comparse nella lunga recita che riproponiamo da anni. Comparse davvero, in quanto appaiono d'improvviso quando scoppia la crisi, accendono le nostre passioni ed i nostri schieramenti, per poi tornare nuovamente nell'oblio.


Fanno da comparse perché se dovessero entrare nella nostra vita da protagoniste rischieremmo di scoprire che in ogni conflitto esistono questioni su cui dobbiamo pronunciarci, momenti in cui dobbiamo dire da che parte stiamo, scelte che dobbiamo fare, persone cui dobbiamo delle risposte e spiegazioni per quello che abbiamo fatto o non fatto.


Troppo più facile proseguire sapendo ben poco del mondo e delle persone che lo abitano e se costretti a sapere, affannosamente adattare le novità al nostro cortile.

1.4.11

La paura delle moltitudini

Laura Boldrini ancora una volta ci ricorda l'importanza delle parole; è un tema che mi è particolarmente caro.

Ma questa volta vorrei soffermarmi su un'altro tema citato spesso in questi giorni: il tema della paura e del suo uso, perché se è corretto e giusto denunciarne l'uso strumentale fatto dalla politica, magari ricordando altri tempi ed altre solidarietà, non è sufficiente ad eliminarlo, ne è sufficiente fare appello alla tradizione dei sentimenti religiosi dell'accoglienza. Quei sentimenti bene espressi nel passo evangelico "Ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35), ma presente anche nell'Islam e nell'Ebraismo, dove il dovere del rispetto per l'ospite viene sottolineato con forza. Ad esempio c'è un Hadith di Maometto che dice “Nella casa dove non entrano gli ospiti non entrano gli angeli”. Lo stesso concetto è presente anche nella Bibbia Ebrei 13.2 "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo".

La domanda infatti è perché nonostante la diffusione di queste religioni rimane la paura dello straniero?

Ma forse la questione è proprio qua: i precetti religiosi spesso promuovono comportamenti scomodi, magari considerati socialmente e moralmente commendevoli ma non sempre facilmente rispettabili, e di qui la necessità del precetto.

Il problema è che la paura, come altri sentimenti, è stata da sempre una necessità della specie; un sentimento indispensabile alla sopravvivenza e che sopratutto organizza i nostri comportamenti senza passare per processi razionali troppo articolati.

Per intendersi, di fronte alla percezione di un pericolo noi reagiamo istintivamente, senza chiederci se il pericolo sia reale o solo immaginario, perché la rapidità della reazione è indispensabile per sopravvivere.

Ma quello che appartiene alla sfera del'istinto e delle emozioni è assai poco organizzabile razionalmente.

Ed arriviamo alla paura dello straniero: proviamo ad immaginarci di camminare per il centro della città e di trovarsi ad un tratto in mezzo ad una folla vestita in modo completamente diverso che magari avanza di corsa e con fare che percepiamo come minaccioso: il nostro primo istinto è quello di metterci sulla difensiva, prima ancora di verificare se le minaccie siano vere e rivolte a noi, ci mettiamo sulla difensiva perché niente sappiamo di quel gruppo.

Perché è un gruppo: e qui abbiamo il secondo aspetto: i numeri: il nostro istinto ci porta sempre a prepararsi al rischio peggiore, e il numero conta: uno sconosciuto solo non lo percepiamo quasi mai come minaccia, forse perché pensiamo sia affrontabile, una moltitudine no. Il problema forse non è accogliere lo straniero, ma gli stranieri.

Non credo sia molto utile discettare se la paura della moltitudine sconosciuta sia giusta o meno. E' un sentimento presente in ognuno di noi e con cui dobbiamo farci i conti.

Cosa è invece possibile e utile fare:
intanto trasformare le moltitudini in persone, perché se invece di marocchini, libici o africani parlassimo di Ahmed, Sennait, Efrem e Aisha avremmo anche una diversa percezione dell'insieme.

La seconda questione è ricordare pervicacemente come ognuna di quelle persone accomunate dal barcone, è un individuo con una sua storia e le sue motivazione che lo hanno portato da noi, ed ognuno di quegli individui ha diritto di essere giudicato per quella storia e quelle motivazioni e non per un timbro messo da una legge o dalle nostre paure. Ha questo diritto perché lo vogliamo anche per noi. Perché anche noi vogliamo e pretendiamo di essere giudicati individualmente per quello che siamo e facciamo e non perché siamo italiani.

la terza questione è svelare il meccanismo. E svelare significa ricordare quanto di scientifico ci possa essere nell'uso della paura.

Un esempio: prima dell'11 settembre 2001 l'attentato terroristico più pesante subito dagli USA sul proprio territorio fu il massacro di Oklahoma City del 19 Aprile del 1995, un attacco che uccise 168 persone ferendone oltre 400. Il responsabile dell'attentato Timothy McVeigh era militante di un movimento paramilitare della destra USA che nella sua fase di massima espansione è arrivato ad avere negli USA oltre 20,000 militanti.
Eppure i riflessi di quell'attentato sulla vita politica statunitense non sono assolutamente comparabili con quelli dell'attentato dell'11 Settembre, e sopratutto nell'opinione pubblica la paura per le gesta della destra non è raffrontabile a quella che provoca Al Quaida, una organizzazione che a detta degli osservatori conta oggi un numero di effettivi in tutto il mondo stimabile in poche migliaia, con oramai pochissimi combattenti in Afganisthan.

Eppure è stata la minaccia di Al Quaida e non quello della destra militante statunitense a venire agitata in ogni occasione ed a tutte le latitudini. Questo perché negli Stati Uniti Al Quaida era il cattivo perfetto, non come il razzista bianco della casa accanto, con cui magari si condivideva qualche bevuta ai match di baseball, e la cui passione per le armi consideravamo innoqua, salvo sorprendersi quando iniziava il tirasegno sui passanti.
Al Quaida: una realtà esterna, lontana e sconosciuta insomma il cattivo che sostituiva al meglio i cattivi precedenti ed oramai in disarmo del campo comunista, e cui poter addebitare i fallimenti della propria politica negli altri campi, una politica che ha reso negli anni il cittadino Usa medio più povero, con meno speranze per il futuro.

E il caso vuole che anche da noi i cittadini medi sono divenuti negli anni più poveri e con meno speranze per il futuro.

Non sarà un caso che hanno anche più paura delle moltitudini sconosciute?