26.10.11

Semper aliquid novi Africam adferre

L'africa ha sempre qualche cosa di nuovo da offrire, scriveva Plinio il vecchio duemila anni fa. In effetti le cose sembrano assai cambiate da allora, con il continente in coda in tutti gli indicatori dello sviluppo.

Eppure ogni tanto qualche sorpresa ce la offre. Parrebbe impossibile ma è proprio dall'Africa che arriva Ushahidi, un'idea che mette assieme le tecnologie di internet e della comunicazione via SMS per mappare i luoghi dove sono in corso crisi acute. Il risultato è una piattaforma che nata per mappare le violenze post elettorali in Kenya nel gennaio 2007, è stata poi utilizzata anche in diverse altre occasioni.

La più recente tre giorni fa con il terremoto in Turchia.

A mio avviso la cosa più significativa della piattaforma è che utilizza le tecnologie del web per rendere possibile a molte persone di essere testimoni, e segnalare con rapidità eventi rilevanti per quel paese o quella comunità.

Insomma, ancora una volta il web come area dove si esprime ed evidenza la partecipazione di persone in carne ed ossa. Una realtà assai diversa da quelle descritta solo qualche anno fa da chi scriveva di tecnologia e parlava di realtà virtuali" e "avatar" o anche solo la battuta vecchia, ma sempre carina, "in rete nessuno sa che sei un cane."

in internet nessuno sa che sei un cane

22.10.11

Operazione “Linda Nchi” (protezione Kenya).

Sull'intervento del Kenia in Somalia iniziato il 16 ottobre: Ci sono almeno due ragioni per considerare l’operazione “Linda Nchi” avventata e rischiosa. La prima è direttamente connessa alla capacità di movimento sul campo e alla volontà politica di sostenere una possibile occupazione. Le forze keniane sono certamente più addestrate e organizzate delle milizie Shabaab, che tuttavia possono contare su una posizione di netto vantaggio se l’invasione dovesse trasformarsi in un’occupazione....Il secondo fattore di rischio della missione militare keniana risiede invece nell’eventualità di pericolose ritorsioni. Il Kenya, e in particolare Nairobi, ospita una folta comunità somala. Se con l’attentato di Kampala (Uganda) del luglio del 2010 gli Shabaab hanno dato prova di poter colpire anche al di fuori dei propri confini, una possibile azione di attacco sarebbe ancor più facilitata in un contesto caratterizzato da una forte presenza somala, sia in termini numerici che economici. Questo il punto di vista di Matteo Guglielmo su AffarInternazionali.

21.10.11

We need him alive!

Non uccidetelo, ci serve vivo! gridava qualcuno nel video della cattura di Gadhafi. Non penso che quella esortazione derivasse da quella considerazione, a me cara, che la civiltà di un popolo si vede da come tratta i peggiori. E credo che anche alle nostre latitudini, in circostanze simili, sarebbero in tanti quelli pronti a premere il grilletto. Del resto la nostra patria storia è là a ricordarcelo.

E tuttavia rimane il fatto che qualcuno, nella concitazione della cattura, esortava i ribelli ad avere giudizio, perché Gahdafi serviva probabilmente davvero più vivo che morto.

La prima riflessione che mi suscita quella frase è che intanto la nozione di popolo, o di movimento di liberazione, così indifferenziata e spesso utilizzata per giustificare la presenza di leader e condottieri, invece nasconde sensibilità ed intelligenze assai diverse, che vanno dal ragazzo che brandisce la pistola d'oro del rais, all'appunto anonimo che urla nel filmato "ci serve vivo".

La seconda è che davvero serviva vivo, anche se forse non avrebbe detto molto sui retroscena delle mille trame e dei mille sogni che lo hanno visto coinvolto. Trame e sogni non tutti necessariamente di segno negativo, anche se spesso in rotta di collisione con interessi ben consolidati.

Perché con lui vivo forse stato possibile sapere di più e meglio sui suoi 40 anni di potere, sugli affari fatti, sulle molte giravolte che lo hanno portato da finanziatore di rivoluzioni improbabili a "re dei re" in Africa. E su quanto abbia pagato il popolo libico in questo processo.

E' probabilmente per questo che qualcuno nella folla urlava quel "ci serve vivo". Non è stato ascoltato: credo ci sia più d'uno in giro per il mondo che ha tirato un sospiro di sollievo.

9.10.11

Carestie vittoriane ed emergenze umanitarie contemporanee

“Le siccità sono fenomeni naturali, le carestie sono provocate dall'uomo”. E' una frase che ogni tanto riaffiora in qualche intervista, e ci ricorda come le società umane da sempre sviluppano sistemi di adattamento e risposta alle possibili avversità, ed è quando questi falliscono che si hanno risultati catastrofici.

Nel suo bel libro Late Victorian Holocausts Mike Davis ricorda come nella 1877 il fallimento del raccolto nell’altopiano del Deccan aveva costituito la premessa per una carestia, e tuttavia in tutto il subcontinente la produzione di quell’anno sarebbe stata sufficente a sfamare la popolazione.
Solo se una buona parte della produzione finì sui mercati di Londra, dove poteva strappare prezzi migliori.

Le teorie liberoscambiste che costituivano la spina dorsale dell’impero britannico ispirarono tutte le azione del viceré dell’epoca, Lord Lytton, che non solo non si oppose al trasferimento delle granaglie sui mercati londinesi, ma emanò anche un decreto, l' “Anti-Charitable Contributions Act” del 1877, che puniva con il carcere gli atti caritatevoli che potevano influire sul prezzo di mercato delle granaglie. Si stima che in quella carestia morirono fra i 12 ed i 29 milioni di indiani.

Laxman D. Satya nel suo saggio ”The British Empire and Famine in Late 19th Century Central India” sottolinea come nei secoli avevano avuto grande importanza le interazioni fra popolazioni nomadi, agricoltori ed abitanti delle foreste, tanto che i confini fra le diverse attività erano in perenne movimento in relazione alle condizioni politico economiche e alla cultura del tempo. Con l’arrivo dell’impero britannico invece le terre comuni e di pascolo furono riassegnate, privando le comunità di alcune delle alternative che nei secoli avevano consentito l’assorbimento dei cicli climatici avversi.

Certo è una storia di 150 anni fa ed oggi siamo sicuramente cambiati. Ma davvero abbastanza?

Dai risultati si direbbe proprio di no: abbiamo ancora i mercanti che esportano dove conviene di più: certo non lo fanno per sfamare Londra, e non sono più gli intermediari che rifornivano i magazzini di Madras, Bombay o Calcutta della compagnia delle Indie; magari oggi lo fanno perché le granaglie sono diventate un bene d’investimento, e quando i beni sono scarsi, come dopo una siccità, i prezzi salgono, e in tempi di crisi finanziaria è sempre una sicurezza investire su ciò che non lascerà l’investitore sul lastrico, come un titolo spazzatura qualunque.

Oppure investono perchè sanno delle necessità crescenti di cibo dalle nuove economie indiane e cinesi, dove il benessere crescente di una popolazione non più rurale avrà sempre più bisogno di cibo prodotto altrove.

Ed allora eccoci qua, con i prezzi delle granaglie alle stelle.

E anche per le terre le cose non sono messe affatto meglio. La crescita della popolazione ha reso sempre più difficile la convivenza di usi concorrenti quali la pastorizia e l’agricoltura, e questa è storia antica. Assai più recente è invece la cessione di grandi appezzamenti di terra per la produzione di cibo quando non biocarburante che verrà consumato altrove, se ne parla qui e qui.

Insomma, tutte le volte che ascoltiamo un appello per intervenire urgentemente per evitare una tragedia, ricordiamoci che quella tragedia ha radici profonde, alcune delle quali finiscono direttamente sull’uscio di casa nostra.