21.11.12

Il cuore degli italiani

Scrive una vecchia amica su Facebook: "In Siria 100 morti solo ieri. Stavo pensando che il cuore degli italiani, indubitabilmente, batte di più se i morti sono palestinesi".

Penso che la scelta delle cause per cui appassionarsi sia sempre un tema spinoso, io ad esempio trovo difficile da digerire la sequenza che ogni tanto si produce sul mio stream di Facebook in cui si alternano immagini di bambini palestinesi con quelle di cani maltrattati e poi l'immancabile appello contro la casta...E poi di questi tempi anche l'articolo antirenziano e quello prorenziano.

Ma per tornare ai palestinesi ci sono molte cose che secondo me la rendono una causa popolare:

a) la somiglianza con cose che ci appassionavano da bambini (indiani che combattono contro le giubbe blu che gli hanno portato via la terra)

 b) la somiglianza con cose che ci appassionavano da giovani (movimento rivoluzionario appoggiato dalla sinistra del mondo contro Israeliani appoggiati dagli USA).

c) l'apparente semplicita' della questione che per il perdurare nel tempo fa si che ognuno di noi si senta un po' un esperto, a differenza della Siria, di cui se e' evidente chi sono le vittime, meno identificabili i buoni (piu' facile per i cattivi) e noi abbiamo bisogno di eroi e di simboli, per dire: non esiste un equivalente della kefiah palestinese da indossare con orgoglio.

 Tutto questo e' giusto? no, ma siamo fatti cosi.

PS io personalmente non condivido foto di bambini, l'orrore per la guerra non dovrebbe averne bisogno. E poi purtroppo so che sarebbe possibile scattare foto altrettanto orribili in parecchie altre parti del mondo.

27.10.12

Il costo del (quasi) made in Italy

Mi spiega Arbi, un ricercatore albanese, che le cose spesso non sono come sembrano. Recentemente il governo ha alzato il salario minimo. In Albania, come in molte parti del mondo (ma non in Italia) il salario minimo e' stabilito per legge. Detto per inciso e'un tema su cui i sindacati hanno posizioni differenziate nel mondo.

Diciamo che dove sono piu' forti ed i contratti valgono per tutti preferiscono essere loro a determinare i livelli delle retribuzioni. Comunque in Albania non vale nessuna delle due condizioni ed i lavoratori solitamente sanno che se hanno un lavoro regolare (e questo gia' restringe il campo) con tutta probabilita' sara' la legge a determinare quanto portano a casa.

Dicevo che il governo ha aumentato il salario minimo, e suggerisce Arbi che non e' per l'obbiettivo meritorio di combattere la poverta', ma per alzare le entrate fiscali. Il risultato e' che una parte del settore del tessile ha iniziato a licenziare: le fabbriche albanesi sono infatti solo uno dei passaggi del processo produttivo che produce per l'europa, e gestiscono solo la componente a maggiore intensita' di lavoro e minore valore aggiunto, ed i camiciai italiani per scegliere da chi fare attaccare bottoni o colletti scelgono in base al prezzo.

Adesso costano meno i terzisti macedoni, o montenegrini.

Ogni tanto penso che ogni prodotto dovrebbe contenere sull'etichetta, accanto alle notizie sul materiale e suggerimenti per il lavaggio, anche il percorso che tutte le parti che lo compongono fanno prima di finire assemblate in quell'oggetto che indossiamo o usiamo con piacere. Chissa' che non ci faccia ogni tanto anche pensare.

26.10.12

Circa parte due

Ne avevo parlato qua ed ecco la risposta: una bella correzione a penna, apportata sul cartello segnala come i minuti prima dell'apertura sono 60.

Dubito di avere alcun merito nella modifica, piu' facile pensare che in tempi di spending review avessero corretto solo il cartello presente sull'ultimo varco e non quello da me fotografato.

Ed i poliziotti si sono pure presentati 5 minuti prima dei 60 minuti indicati...

12.10.12

Circa

Il cartello e' chiaro: l'accesso ai gates per i voli area extra Schengen apre "circa" 90 minuti prima della partenza del volo: sostanzialmente il personale addetto al controllo dei passaporti prima non c'e'.

Erano le 8:00 di un giovedi' mattina ed il volo partiva alle 9:30, ma fino alle 8:25 del personale di frontiera manco l'ombra.

"Circa" parola di cinque lettere che forse sintetizza al meglio il succo dello spirtito organizzativo italiano.

5.10.12

11 anni di mancata riforma


Era il gennaio del 2001, in quelle settimane il parlamento, di cui era prossimo lo scioglimento, stava discutendo nel chiuso delle sue commissioni, quelle cui ci si rivolge quando si vuole essere certi di una approvazione rapida, la legge di riforma della cooperazione allo sviluppo. E pareva di potercela fare: dopo faticose mediazioni infatti sembrava fossero stati messi d'accordo tutti i soggetti che se ne occupavano: dalle associazioni alle organizzazioni non governative, dai ministeri, alla potente struttura del ministero degli Esteri.

Mi ricordo ancora quando venni a sapere che non se ne faceva di nulla: avevo accompagnato una delegazione alla UTL di Asmara e nel corso dell'incontro il responsabile ci segnalo' come era venuto meno l'accordo destinato a produrre la legge. In sostanza uno o piu' dei vari soggetti appena elencati aveva fatto qualche calcolo ed aveva ritenuto piu' conveniente scommettere sul parlamento e sul governo successivo, parlamento e governo che tutti erano abbastanza certi sarebbe stato di centro destra, dopo un quinquennio di governi di centrosinistra caratterizzata dalla litigiosita' dei componenti della coalizione.

Qualcuni mi sussurro' che fossero state le gerarchie vaticane a scommettere su un Berlusconi  attento ad una impostazione della cooperazione che prendesse piu' a cuore l'approccio al tema che da sempre ha avuto il mondo cattolico, un approccio molto centrato sulla tradizione dell'assistenza e con una grande enfasi sul lavoro di volontari caratterizzati da un forte spirito religioso, e che forse desideravano qualche cosa di diverso dalla proposta che stava emergendo, una proposta che aveva come elemento qualificante la formazione di una agenzia governativa addetta a dare un forte impulso  alle  attivita' di cooperazione, sulla falsa riga di quanto gia' avveniva (ed avviene) in altri paesi.

Ma forse era solo una illazione, ed altri furono gli affossatori dell'ultimo, fino ad oggi, tentativo di arrivare alla riforma del modo con cui l'Italia gestisce la cooperazione internazionale.

Ad esempio l'agenzia, con la sua maggiore indipendenza nella gestione delle risorse, non era probabilmente vista troppo di buon occhio da molti della Farnesina, e del resto non era un caso se nei primi articoli della legge 49/87 allora (ed ancora) vigente si sottolineasse come la cooperazione fosse parte integrante della politica estera del paese. E se parte integrante deve essere, e' comprensibile che  chi quella politica la fa, abbia il desiderio di controllarne la borsa e gli sviluppi sul campo.

E nonostante i tentativi di alcuni volenterosi (solitamente addetti ai lavori) che negli anni hanno provato a riproporre il tema, di legge della cooperazione non si e' piu' parlato molto in modo pubblico fino a pochi giorni fa, quando la questione e' tornata alla ribalta dopo il decennio di oblio cui lo avevano condannato la mancanza d'interesse nell'argomento da parte dei governi Berlusconi e delle sue maggioranze, e la vita turbolenta del secondo governo Prodi.

Oggi a leggere le cronache della preparazione alle giornate pare che molti dei nodi siano ancora quelli del 2001. Ed anche i tempi sembrano essere gli stessi ristrettissimi di quell'inverno di undici anni fa.

L'augurio e' che di quelle giornate rimanga molto piu' di un comunicato finale o la notizia che a volte anche Mario Monti ride.

Ed in piu', come fa notare Raffaella Chiodo Karpinsky commentando le giornate, restano ancora molti interrogativi...

4.10.12

Smartphone senza AppDiritti

-ci vorrebbe un sindacato! esclamo' la giovane impiegata della agenzia che mi stava aiutando a trovare una casa.

Ero arrivato da poco in quel paese e stavo cercando di capire un po' meglio dove mi trovassi. Certo la frase non era benaugurale considerato che il progetto su cui lavoravo aveva come partner proprio un sindacato. Insomma un partner apparentemente non troppo conosciuto, e tuttavia trovai assai interessante l'affermazione, sopratutto se confrontata con le molte lamentele per lo strapotere delle organizzazioni sindacali che ho sentito in questi anni in Italia, anche da soggetti che per formazione e cultura dovrebbero averne a cuore la forza.

 La verita' e' che un sindacato ci vorrebbe sempre, perche' chi ha poche altre armi ha bisogno della forza del numero per difendere i suoi diritti. Ogni tanto e' la cronaca a ricordarci come questo manchi ancora da molte parti del mondo. A rischio non ci sono solo gli iphone 5 prodotti in qualche fabbrica cinese (e magari neppure delle peggiori) ma l'idea che tutti abbiano diritto ad un lavoro dignitoso.

16.9.12

A real leader...

A real leader uses every issue, no matter how serious and sensitive, to ensure that at the end of the debate we should emerge stronger and more united than ever before” (Nelson Mandela).

E' una frase tratta dagli appunti cui Mandela stava lavorando durante la sua presidenza, e che dovevano servire ad una nuova autobiografia che coprisse gli anni della sua presidenza. Ho trovato la citazione poco fa in un twit della fondazione Nelson Mandela (@NelsonMandela).
Mi immagino che sia un invito della fondazione a rendere utile il dibattito in corso nel paese dopo i fatti di Marikana di cui parlo qui e qui.

E tuttavia guardando alle questioni italiane non posso non pensare che sia una frase che valga anche da noi, perche' davvero un vero leader non ha paura di utilizzare qualsiasi argomento per assicurare che alla fine del dibattito noi, ed e' importante notare il NOI, ne usciamo piu' forti ed uniti.

9.9.12

Marikana e' piu' che un incidente

Violence from any side is inexcusable, but deadly force from a democratic state is a cardinal sin. It strikes at the heart of democracy (Jay Naidoo).

La frase riportata non e'  l'unica e non sara' l'ultima dedicata alla riflessione sugli eventi di 3 settimane fa nella miniera della Lomin a Marikana. E' tuttavia quella che esprime forse in modo piu' stringente il pensiero di molti di coloro che avevano a suo tempo combattuto l'apartheid sugli eventi che hanno portato alla morte di 44 persone per mano della polizia, nella miniera di Marikana.

Mano a mano che si chiarivano le dinamiche dei fatti e' divenuto sempre piu' chiaro come la versione ufficiale, che riportavo qua, non era sufficente a spiegare gli eventi. Troppi i morti colpiti alle spalle, troppi quelli caduti lontano dalla zona dove sarebbe avvenuto l'episodio che avrebbe costretto all'uso estremo della forza (come detto dalla polizia subito dopo gli incidenti).

Fra qualche mese la commissione indipendente d'inchiesta fornira' una versione forse piu' realistica degli eventi e magari sara' costretta a convenire con le parole di Jay Naidoo: La violenza delle parti non e' giustificabile, ma l'uso estremo della forza da parte di uno stato democratico e' un peccato capitale. Colpisce il cuore della democrazia. 

E probabilmente dovra' inevitabilmente ricordare come le forze di polizia debbano fare ancora molto per essere all'altezze dei loro compiti, se e' vero, come sottilineava qua una commentatrice sudafricana, che gia' nel 2010 il direttorato indipendente per i reclami si era trovato a dover indagare su ben 1769 casi di persone decedute mentre in custodia delle forze di polizia o come risultato della loro azione.

 Ma certo e' evidente come la tragedia di Marikane sia un punto di svolta per la societa' sudafricana, il momento in cui l'intera nazione si e' trovata costretta a misurare la distanza della realta' dal sogno un po' patinato proposto dai mondiali di calcio del 2010.

E se per il resto del mondo forse le immagini di Marikana sono gia' passate nell'archivio, i sudafricani si interrogheranno ancora a lungo sul che fare, e non vi sono dubbi che non sara' un processo indolore.

23.8.12

L'arcobaleno non brilla a Marikana


Pochi giorni fa le reti televisive mostravano a tutto il mondo le immagini della polizia sudafricana che sparava su una folla di manifestanti neri: purtroppo non erano immagini di repertorio tratte da qualche documentario sugli anni dell'apartheid ma erano invece cronaca di una protesta sindacale finita nel sangue, con 44 morti ed un paese ad interrogarsi su cosa fosse successo nella collina dietro a Marikana nel north west cape.

A pochi giorni di distanza dagli eventi dalle cronache degli inviati la dinamica dei fatti pare assai chiara: chi doveva garantire l'ordine pubblico in una situazione di altissima tensione ha probabilmente sbagliato qualcosa nelle valutazioni e si e' trovato in una situazione in cui ha aperto il fuoco per uscire dall'accerchiamento in cui si era trovato. Per usare le parole del capo della polizia "le circostanze richiedevano l'uso del massimo della forza".

Insomma una tragedia che forse con una diversa gestione poteva essere evitata. E tuttavia una tragedia che ha portato in piena luce tutte le contraddizioni in cui si trova in questo momento avvolta quella che fu definita la nazione arcobaleno. 

Innanzi tutto gli attori: a protestare erano lavoratori che non si riconoscevano piu' nella leadership sindacale che ha caratterizzato per anni la storia industriale sudafricana. Sbrigativamente qualcuno ha scritto che a causare gli scontri erano stati i contrasti fra il potente sindacato dei minatori NUM e un sindacato indipendente, AMCU, in fase di ascesa nei consensi. Sbrigativamente perche' con tutta probabilita' le cose sono piu' articolate perche' piu' articolato e' il modo con cui i lavoratori si rapportano con i loro rappresentanti: ad esempio secondo alcuni dei commentatori sulla collina di Marikana vi erano probabilemnte anche molti iscritti al NUM o cani sciolti. 

Ed allora la questione e' quella della capacita' che una organizzazione sindacale deve avere di capire sempre cosa accade nei luoghi di produzione, perche' i lavoratori possono avere ragione o torto, ma quando 3/4000 di loro escono dalla miniera e iniziano una protesta occorre essere la e capire cosa accade e magari rimettere in discussione anche le proprie strategie. Insomma, non ci sono probabilmente innocenti fra i sindacati.

Come non ci sono innocenti anche fra gli altri attori sociali. Fa notare Jay Naidoo, che negli anni 80 e nei primi anni 90 era stato il segretario della principale confederazione sindacale sudafricana COSATU, come sia Num che Amcu sono sindacati riconosciuti dall'impresa concessionaria delle miniere, solo che al tavolo delle trattative sindcali era stato invitato solo il primo assieme a Solidarity (un altro sindacato riconosciuto)...e' questa un'altra delle lezioni che vanno sempre ricordate a Marikana come in qualsiasi altra parte del mondo: le imprese non possono permettersi di scegliersi gli interlocutori, perche' chiunque rappresenti legalmente dei lavoratori deve sedersi al tavolo.  

Ma il tema piu' rilevante e' quello del valore simbolico che ha il campo di battaglia di Marikana: in quella miniera si racchiudono molti dei temi che hanno acceso il dibattito politico sudafricano e la strategia del partito di governo dalle storiche elezioni del '94.

Innanzi tutto le miniere: in uno dei documenti storici dell'ANC, il freedom charter, viene sottolineato come tutti debbano godere delle risorse del paese: "The mineral wealth beneath the soil, the Banks and monopoly industry shall be transferred to the ownership of the people as a whole (le risorse minerarie, le banche e le industrie monopolistiche debbono essere di proprieta' di tutto il popolo)", ed e' sulla proprieta' delle miniere da qualche anno vi e' uno scontro accesissimo fra chi ritiene necessario rivedere tutta l'organizzazione dell'industria estrattiva (la parola d'ordine e' nazionalizzazione ma la proposta e' probabilmente piu' sfumata) e chi invece preferisce una strategia di inclusione delle comunita' precedentemente emarginate nel godimento della ricchezza mineraria. 

La seconda strategia, con declinazioni diverse ha per ora prevalso, ma il dibattito continua. E vale la pena di notare come la societa' che gestisce la miniera di Marikana veda sedere nel suo consiglio di amministrazione anche Cyril Ramaphosa, segretario del sindacato dei minatori negli anni 80, segretario della ANC e presidente della assemblea che scrisse la prima costituzione fino al 1994, e poi diventato uno dei primi a lasciare la politica per dedicarsi all'impresa nella fase in cui il Sudafrica spinse attivamente per rendere meno bianchi i consigli di amministrazione delle grandi imprese con la politica del BEE (black economic empowerement).

Insomma simbolicamente a fronteggiarsi su quella collina erano gli architetti del nuovo sudafrica nel 1994, e coloro che a torto o a ragione si sentivano esclusi dalla festa.

Ma Marikana ha un valore simbolico anche per la politica: sono sempre piu' frequenti eventi che denotano che accanto al confronto fra mondo bianco e mondo nero, che ha dominato la politica del paese per decenni, e di cui la ANC e' stata protagoniste piu' significativo, affiorano sempre piu' i temi delle diseguaglianze crescenti e delle diverse opportunita' che vengono offerte ai cittadini, diseguaglianze dovute ancora al colore della pelle, ma in cui sembrano avere un loro peso connessioni politiche e appartenenze varie.

Sempre per restare a Marikana, faceva notare un giornalista come la comunita' del luogo si fosse lamentata delle procedure con cui erano state incorporate nella proprieta' potenti e ben connesse societa' BEE lasciando fuori invece il consorzio formato dalla comunita' locale perche' "erano scaduti i tempi per l'offerta". 

Certo non e' detto che un azionariato strutturato diversamente avrebbe evitato la carneficina, tuttavia la lente d'ingrandimento che l'evento ha fatto si che fosse piazzata su quella miniera, mostra i dettagli di una societa' dove la redistribuzione della ricchezza promessa dalla fine dell'apartheid sembra aver visto figli e figliastri. 

Con tutta probabilita' la lezione piu' importante che viene da Marikana e che segnera' i prossimi anni del Sudafrica e' che anche in quella societa' non e' sufficente trovare i modi per comporre la dialettica interna ad un partito che con il suo 60% dei voti puo' pensare di governare ancora a lungo: occorre invece sapere che comunque esistono dinamiche sociali che non sono condizionabili dai risultati di un congresso o di una conferenze, e con quelle dinamiche, piaccia o no occorre sempre confrontarsi. 

A fine anno la ANC terra' la conferenza che dovra' indicare la strada che intendera' prendere nei prossimi anni e gli uomini, a partire dal presidente, che guideranno l'organizzazione in quel cammino: e' assai probabile che gli spari di Marikana avranno una eco anche in quella occasione.

17.8.12

Le Guineamen e la volata della staffetta

Il podio della staffetta 4 x 100 delle ultime olimpiadi di Londra ha offerto piu' di un motivo per i commentatori. Dalla riflessione sul fatto che il talento di Usain Bolt non sia isolato in quella Giamaica fino a pochi anni fa conosciuta solo per reggae e ganja, alle considerazione che anche una piccola nazione come Trinidad e Tobago sia in grado di conquistare il bronzo in una specialita' che vede praticanti a tutte le latitudini. 

Ma senza dubbio quello che salta piu' agli occhi e' quello che oramai e' considerato quasi un assioma nell'atletica, ovvero che nello sprint il colore della pelle conta e non poco, ed i quartetti di Giamaica, Usa e Trinidad e Tobago sono la a dimostrarlo. 

A me invece quello che ha colpito e' che il podio sembrava la descrizione delle destinazioni delle navi che per 200 anni trasportarono 12 milioni di schiavi dall'africa alle americhe. 

Le navi le chiamavano in gergo guineamen e le cronache dell'epoca raccontavano come fossero riconoscibili sin da lontano per l'odore insopportabile prodotto da un carico di esseri umani stipati fino all'inverosimile per il trasporto nel "passaggio di mezzo", come veniva chiamata la traversata atlantica, tratto piu' doloroso di una triangolazione che portava i prodotti delle industrie europee dall'europa ai mercati dell'africa, dove venivano scambiati per schiavi da vendere nelle americhe, dove avrebbero lavorato nelle piantagioni di zucchero e cotone da destinare alle manifatture europee. 

 Un passaggio doloroso per 12 milioni di uomini e donne, di cui il 10/15% periva nel viaggio, e anche per chi fosse sopravissuto le prospettive non erano delle migliori: la coltivazione della canna da zucchero e' una attivita' dura ancora oggi e lo era ancor di piu' in quegli anni, quando le antille erano il centro della produzione mondiale. 

Si stima che la vita media per uno schiavo impegnato nelle lavorazioni piu' pesanti fosse di 7 anni. Ed e' anche per questo che il traffico di schiavi verso le Antille fosse forse il piu' alto di tutto il nuovo mondo. 
Quel nuovo mondo dove prima delle grandi migrazioni europee dell'ottocento, gli schiavi erano di gran lunga il gruppo piu' numeroso di immigrati, "salt water slaves" li chiamavano. 

Ma a quella tragedia, pensata, voluta e giustificata dall'uomo e gestita con leggi che definivano gli schiavi "proprieta' privata" come qualsiasi oggetto, leggi che non concedevano alcun diritto sui figli degli schiavi, proprieta' anche loro del padrone, quella tragedia e' probabilmente anche la maggior responsabile della nascita della discriminazione razziale, perche' se e' vero che la schiavitu' e' sempre esisitita e che nei secoli sono stati schiavi uomini e donne di tutte le razze e religioni, chi per sconfitta in guerra, chi per debiti, chi per chissa' quale altro motivo, e' stato probabilmente solo con la tratta atlantica allora che si e' diffusa nell'occidente l'equazione pelle nera = schiavo e l'idea che fosse normale e giusto ridurre in schiavitu' un uomo per il fatto di appartenere ad una razza da allora e per molto tempo considerata "inferiore". 

 Una idea questa che ha sopravissuto per molto dopo la fine della schiavitu'. Quella schiavitu' abolita nel regno unito con una legge che indennizzava i proprietari di schiavi per la loro perdita e non concedeva niente alle vittime dello schiavismo, salvo la liberta' di essere poveri; quella schiavitu' abolita 30 anni dopo negli stati uniti solo dopo una guerra civile e che tuttavia fu seguita da leggi che introducevano la segregazione razziale e che sarebbero state abolite solo nella stagione dei diritti civile cento anni dopo, a meta' del XX esimo secolo. 

Non so quanto tempo la scuola dedichi oggi allo studio dello schiavismo, ma sospetto troppo poco, e sospetto che sopratutto non sia ricordato come lo schiavismo non sia solo un fenomeno lontano ed oggi per fortuna illegale, ma sia stato un modo di produzione per la cui difesa si sono prodotte leggi, trovate giustificazioni morali, pseudo spiegazioni scientifiche, e che sopratutto e' stato per due secoli compagno di strada di quella rivoluzione economica che ha progressivamente trasformato l'occidente nel corso degli ultimi 300 anni. 

Con tutta probabilita' nella Londra tirata a lucido in cui Usain Bolt e compagni hanno sfrecciato verso l'oro, l'argento ed il bronzo, ancora sopravvivono palazzi e ricchezze costruite con le sofferenze dei loro trisavoli, quelli che tagliavano la canna da zucchero sotto il sole infuocato delle Antille, quelli che raccoglievono in cotone nelle colonie del nord america. Ed ahime' sopravvivono la come altrove anche le idee razziste che di quel periodo sono figlie.   

28.7.12

luglio 2012: taccuino di viaggio

Agli inizi di luglio sono stato a Tirana per due settimane. Un paio di cose buttate giù mentre aspettavo l'imbarco per rientrare in Italia 

 "Stizziscitici" 

Avanti c'e' posto. Era il titolo di un film del 1942, con un Aldo Fabrizi nei panni di un bigliettaio di un tramvai romano. 

E' un film piu' volte riproposto nei primi anni delle televisioni private italiane, quando prima dell'invasione dei telefilm americani le TV svuotavano i magazzini delle cineteche pur di avere qualche cosa da mandare in onda. 

"Stizziscitici!" era l'esclamazione che con bonomia Fabrizi ogni tanto rivolgeva a qualche passeggero in vena di intemperanze. 

Mi veniva in mente quel film nei giorni in cui mi e' capitato piu' volte di prendere l'autobus che da Tirana porta a Kombinat, popoloso quartiere della periferia di Tirana, dove ha la sede ii sindacato con cui stavo lavorando. 

Gli autobus albanesi hanno il bigliettaio, come quelli italiani di una volta, solo che anziché seduto sullo sgabello vicino alla porta, con il piccolo desco con spiccioli e biglietti di fronte, il bigliettaio albanese cammina avanti ed indietro lungo l'autobus, raggiungendo più o meno rapidamente chi sull'autobus e' appena montato, non necessariamente ad una fermata, perche' spesso se vedi passare l'autobus basta fare un cenno e l'autista apre la porta e ti fa montare in corsa. 

E l'operazione di vendita biglietti non e' sempre semplice per il bigliettaio: l'autobus per Kombinat puo' essere a volte davvero pieno e le persone montano e scendono da tutte le porte e non e' detto che facciano in tempo a pagare il dovuto o mostrare l'abbonamento. 

E le differenze non finiscono li, niente divisa blu, come aveva Fabrizi nel film, ma pantaloni, maglietta e ciabatte per affrontare temperature che su quegli autobus, generalmente recuperati di seconda mano da qualche parte d'europa, possono essere considerevoli. 

Unico elemento in comune col bigliettaio impersonato da Fabrizi, l'essere oggetto delle intemperanze dei passeggeri, mi immagino resi irascibili dal caldo e dalla calca. 

Chissa' come si dice "stizziscitici" in albanese. 

Jepet me qera 

Sono rientrato a Tirana per una breve missione e accanto al caldo la cosa che forse mi ha colpito di piu' e' la lunga sequenza di fondi vuoti offerti in locazione: "jepet me qera" come si dice in albanese. 

L'ho notato per la prima volta il lunedi' appena arrivato, quando sono andato dal barbiere sotto casa per un taglio di capelli. Il cartello era la, sulla vetrata del negozio. 

Due settimane dopo il fondo era chiuso in attesa di un nuovo inquilino. Chissa' dove e' finito quel barbiere che lavorava a tutte le ore lunedì compreso. 

Ha trovato invece un inquilino il fondo sulla rruga durris dove qualche mese fa avevo visto inaugurare una panetteria o "furre bukke" come si scrive in albanese. Ce ne sono a decine ogni dove. 

Solo che questa ha durato pochi mesi, l'ho lasciata a marzo che aveva cambiato gestione, oggi si e' trasformata in una sala scommesse. 

Una passeggiata sulla rruga durris e' illuminante dello stato della economia del paese: sempre piu' "jepet me qera", su una via che per traffico dovrebbe rappresentare un buon asse per le attività commerciali. 

Certo non concorrenziale con quelle piu' prestigiose delle zone del blloku, ma comunque in grado di garantire un buon passaggio. 

Ma con tutta probabilita' sono anche molti meno i bus che partono per la Grecia e che hanno la loro fermata proprio in fondo alla Durris, e probabilmente anche chi ancora un lavoro in Grecia lo ha, parte con meno cose da portarsi dietro. 

 Aeroporto di Tirana 13 luglio ore 9:45 

Poi capita di sentire il proprio nome dagli altoparlanti dell'aereoporto, quando hai gia' passato i controlli di sicurezza e con la cintura dei pantaloni ancora in una mano devi uscire nuovamente per andare al controllo bagaglio. 

"Che sara'?" ti chiedi, e pensi ai kitchissimi magneti da frigo con Teresa di Calcutta comprati per una amica che ne fa collezione, o al formaggio preso di prima mattina al negozio sotto caso. Ma sopratutto quelli che secondo te traggono in sospetto sono clarinetto e leggio smontabile. 

Vieni accolto da un poliziotto gentilissimo che ti chiede cosa hai nella valigia, e gli dici dello strumento, e lui ti chiede se conosci il concerto per clarinetto ed orchestra di Mozart, e ti dice che da bambino aveva studiato per un po' il clarino e canticchiando fra se e se apre la custodia dello strumento e passa le dita sui tasti con un po' di malinconia. 

Gli dico che non sono un gran strumentista e che il clarinetto che ho non costa troppo, e anche se 350 euro sono tanti per gli stipendi albanesi, magari puo' farci un pensiero... 

Chiusa la valigia saluto e torno nelle zone d'imbarco sorridendo. 


Mi piace pensare che il poliziotto m'avesse chiamato solo perché' voleva parlare di musica e del suo amore per il concerto di Mozart, e magari sfiorare ancora una volta i tasti di un clarinetto.

24.6.12

In seconda base con licenza di pesca

Da ragazzo giocavo a baseball. Non era stato difficile per me appassionarmi allo sport, complice una estata passata dai miei nonni paterni negli Stati Uniti ed un gruppo di cugini più o meno coetanei che lo giocavano, come ogni ragazzino statunitense che si rispettasse.  

Appena più difficile trovare come continuare a giocarlo una volta rientrato a Firenze. Ma a questo ci pensò Roberto, uno dei miei compagni della 1A del liceo scientifico, anche lui appassionato dello sport, che non ricordo come aveva iniziato ad amare, forse da qualche film in televisione, e che aveva scoperto che a Firenze c'erano due o tre squadre giovanili e mi propose di entrare in quella che aveva contattato: il CUS Firenze. 

Ed è così che per un paio d'anni mi trovai a giocare, con risultati modesti, come seconda base in una squadra che comunque qualche risultato lo raggiunse, fra cui la vittoria in un torneo interregionale dei giochi della gioventù, vittoria che ci consentì di partecipare alle finali a Parma dove poi rimediammo tutte le sconfitte possibili.
Ma il particolare che forse mi ricordo di più delle partite di quel torneo era che i dirigenti della squadra dovettero affrontare il problema della mia nazionalità: essendo all'epoca cittadino USA, per le regole vigenti non avrei potuto parteciparvi. 

Risolsero il problema con una licenza di pesca: un documento che pare ai tempi venisse accettato sui campi da gioco (per le squadre giovanili) e che però non riportava la nazionalità (o forse la riportava ma chi le emetteva non andava troppo a controllare). 

Erano i primi anni '70 del secolo scorso e mi immagino che oggi le cose siano un po' diverse, e tuttavia quella questione mi torna in mente spesso quando sento parlare di cittadinanze ed identità legate a bambini e ragazzi nati e cresciuti in Italia. 

Perché oggi le classi sono com'è noto ben più piene di ragazzi con documenti di identità diversi, e quella che era una eccezione che io vivevo a volte con un po' di imbarazzo, oggi è una delle realtà della scuola, e mi immagino che per un insegnante anche solo organizzare una gita scolastica possa diventare un incubo per la necesstà di districarsi fra permessi, documenti di viaggio e c., 

Per non parlare di cose più prosaicamente economiche, ma non meno gravi sul piano della vita di una classe, come faceva notare solo un paio di anni fa una interrogazione al Senato italiano, relativa ad un episodio avvenuto per la visita di una classe al Vasariano "percorso del Principe" di Firenze. 

Mi immagino che per ogni Balotelli, ci siano altre centinaia di ragazzini e ragazzine che fanno sport nel nostro paese per le quali l'unica differenza, rispetto ai loro coetanei sia data da quel documento di cittadinanza italiana. 

E non è più sufficente una licenza di pesca.

Si è cittadini perché ci si è nutriti di una lingua, si è frequentata una scuola, si sono vissute le passioni e le emozioni di una collettività. 

E le società che vanno avanti sono quelle che sanno preparare il futuro ai figli, e non quelle che distribuiscono i diritti in base al sangue dei nonni.

15.6.12

La terra vista dalla terra

Quella sera Stefano ci pose un problema diverso dai soliti di cui discutevamo, quando ogni tanto ci incontravamo nella nostra piccola comunità di espatriati in Eritrea.

E per la verità la questione che gli stava a cuore non era nemmeno un problema suo, ma gli era stata esposta qualche giorno prima da un maestro elementare che aveva incontrato a qualche centinaio di km a sud di Asmara, nel corso di una distribuzione di carburante per stufette, combustibile indispensabile per cucinare in quelle zone deforestate e ancora in rovina per il sanguinoso conflitto appena concluso.

"Ei tu, che vieni da lontano, mi aiuti a trovare un modo da cui far capire ai miei alunni che la terra è rotonda?" questa la domanda. E si perché l'orizzonte di quei bambini era circoscritto fra i campi profughi dove si erano rifugiati qualche mese prima, e le modeste abitazioni in cui erano ritornati.

Me lo ricordo Stefano che si ingegnava a trovare una prova. Ad un certo punto gli venne una idea: "li carichiamo tutti su un bus e li portiamo a Massawa a guardare le navi che lasciano il porto, e quando all'orizzonte vedranno scomparire prima lo scafo del'albero, gli diremo che è la prova della curvatura terreste!".

Poi arrivarono altre urgenze, e quel viaggio a Massawa non fu mai organizzato, e chissà se quei bambini, adesso probabilmente assai più grandi, lo avranno poi visto il mare, con il suo orizzonte curvo...

Il problema di Stefano mi ha sempre colpito perché rimanda al tema dei nostri sistemi mentali, con l'insieme di regole, norme ed assiomi che ci aiutano a capire ciò che ci circonda, ma che non necessariamente spiega tutta, e anzi spesso perde di vista aspetti essenziali (per altri) della realtà.

"Ovviamente non stai facendo il giro del mondo, ma stai girando nel mondo" Furono le parole pronunciate da Paul Kruger, allora presidente delle repubblica del TransvaalJoshua Slocum, il primo navigatore a circumnavigare il mondo in solitario e che fece tappa nel porto di Durban nel 1897. Paul Kruger riteneva, in buona compagnia nei secoli, che la Bibbia fosse una fonte troppo autorevole per essere contraddetta, e che quindi la terra dovesse essere piatta per forza.

Ma se Oom Paul (come lo chiamavano i suoi compatrioti) aveva almeno dalla sua l'essere cresciuto in un contesto come quello del Transvaal della metà dell'800, e simile giustificazione l'avevano i ragazzi incontrati da Stefano, nati a pochi chilometri da un confine conteso e cresciuti su campi ancora da bonificare dalla mine, assai meno spiegabile è che il 46% dei cittadini Usa abbia molti dubbi sulle teorie di Darwin, e che addirittura l'evoluzione sia stata espunta di recente da molti libri di testo pubblicati in Sud Corea per le pressioni dei gruppi creazionisti.

Meno spiegabile ma non meno probabile...questo perché pare esser sempre possibile costruire dei sistemi di opinioni, fedi e comportamenti dotati di una loro coerenza interna che li rende assai impermiabili a suggestioni esterne. Come mostra il proliferare di sette e integralismi di ogni genere.

E questi sistemi sono spesso perfettamente sufficenti per chi li adotta: molti anni fa mi raccontava un amico che lavorava ad Harlem a Manhattan, che molti degli studenti della sua piccola scuola non sapevano di trovarsi su un'isola, non lo sapevano perché non erano mai usciti dal loro isolato, ne pensavano di farlo, essendo quello il loro territorio passato il quale erano in pericolo di imbattersi in bande rivali.

Pare essere quindi questa la sfida maggiore: capire quali sia l'orizzonte da cui partono i nostri interlocutori, capire come nascono le loro convinzioni, e su quali premesse si basino, e capire che anche per noi qualche volta la terra è piatta, e che se tutti viviamo nel nostro isolato, l'importante è saperne uscire ad incontrare il vicino....


27.5.12

I Lavori che non vogliam più fare


Molti anni fa il parlamento italiano votò una delle prime leggi che tentavano di affrontare la questione della disoccupazione giovanile, era il 1977 e con la legge 285 venivano introdotte norme nuove per l'avviamento al lavoro. La prima di queste consisteva in una lista di collocamento da cui le imprese potevano attingere per contratti a termine che dovevano avere la caratteristica di fornire anche un contenuto formativo, introducendo una innovazione rispetto al preesistente contratto di apprendistato.

Era una legge che vide i sindacati impegnati nelle aziende per raggiungere accordi che prevedessero anche una certa quantità di assunzioni con quei contratti.

A Scandicci ricordo che il sindacato riusci a strappare un impegno alla Billi-Matec (una fabbrica che all'epoca aveva una forza lavoro di svariate migliaia di persone) per l'assunzione di qualche decina di giovani con contratto di formazione lavoro.

All'epoca ero piuttosto giovane e collaboravo con il consiglio di zona e mi ricordo che ci domandammo cosa sarebbe accaduto se le chiamate fossero andate deserte. Per questo ci prendemmo la lista degli iscritti al collocamento e decidemmo di contattarli direttamente per presentare loro l'iniziativa.

Ricordo ancora una delle prime persone che avevo contattato, una ragazza che per punteggio stava in cima all'elenco: mi ascoltò per un po' e poi mi disse poche parole: "Mio padre lavora in fabbrica da 30 anni, e se gli dico che la mia laurea ha portato anche me a lavorare in fabbrica non so come reagirebbe."

Mi congedai da lei dopo aver registrato forse per la prima volta, una versione comprensibile del concetto di "i lavori che non vogliamo più fare", quello che è un mantra spesso ripetuto con toni che passano dalla riprovazione verso i giovani un po' fighetti che non vogliono sporcarsi le mani, a quelli invece che sottolineano l'ovvio, ovvero che potendo scegliere ci sono lavori che si preferirebbe non fare. 

C'è una chiave di lettura tuttavia che mi pare spesso sfuggire nel dibattito sui quei lavori: contrariamente a quello che si pensa non sempre sono lavoro a bassa qualificazione. Certo, vengono assunti anche manovali, ma fra i tanti immigrati nel nostro paese ci sono anche muratori specializzati e operai con professionalità a volte anche elevate, persone dotate cioè di quelle quailifiche indispensabili in tante aziende d'Italia, e che spesso hanno fatto la fortuna del made in Italy.

Ed allora c'è la prima questione da notare: spesso non sono i lavori che "noi non vogliamo più fare", ma semplicemente lavori per cui non esistono sufficienti candidati con le qualifiche necessarie, ne le imprese hanno interesse o voglia di investire in formazione: come non notare a questo proposito l'ironia delle domande di assunzione per personale con contratto di apprendistato in cui però si chiede pregressa esperienza nel settore?

Ma poi c'è il secondo aspetto che mi pare ancora più importante da notare: sono parecchi anni che il messaggio ricorrente è quello della fine del posto fisso: "fra 20 anni molti di noi lavorerano in campi e professioni che oggi ancora non esistono" si diceva qualche anno fa agli albori della rivoluzione introdotta dall'informatica. Ancora pochi mesi fa con una battuta infelice il presidente del consiglio Monti accennò alla noiosità del posto fisso. 

Ed allora in questo contesto come sorprendersi del rifiuto a percorsi formativi professionalizzanti troppo stretti. Un ragazzo di oggi, fra la prospettiva di percorrere tutte le tappe del lavoro di fabbrica o cantiere, con il rischio di trovarsi dopo qualche anno con una qualificazione non spendibile, e l'arrangiarsi in lavori precari, dei più svariati, nella speranza di incappare nel filone giusto, probabilmente sceglie al seconda ipotesi. Insomma "i lavori che non vogliono più fare" potrebbero essere anche quelli che non vogliono imparare perché temono che potrebbero non portare troppo lontano. Ed è difficile dare loro torto. 

E credo che così abbia scelto a suo tempo anche quella ragazza di trentacinque anni fa.

11.5.12

Cittadinanze minori

"Gli zingari dovete emarginarli voi" gridavano i manifestanti qualche giorno fa a Pescara.

I motivi della manifestazione, promossa da un gruppo di tifosi del Pescara calcio, erano legati all'omicidio di un capo della tifoseria locale, per mano di un altro pescarese appartenente alla comunità roma che vive da anni in un quartiere della città.

La vicenda fornisce qualche spunto di riflessioni: intanto il responsabile dell'omicidio si chiama Massimo Ciarelli, un cittadino italiano, ed appartiene ad una comunità che abita a Pescara dagli anni 40.

Il contesto in cui nasce non è quindi quello conseguente ai flussi migratori degli ultimi anni ma quello ben più antico che nella società italiana hanno innervato i rapporti fra comunità roma e sinti e resto della popolazione. Insomma in piazza a Pescara non c'erano nuovi razzismi ma ben più antichi pregiudizi, gli stessi pregiudizi di cui parlavo qualche tempo fa qui.

Probabilmente la spinta a dividere il mondo in "noi e loro" che sta dietro alla manifestazione di Pescara è connaturata nelle comunità umane, e conseguente alla necessità di individuare rapidamente i possibili pericoli per la sopravvivenza della comunità.

Ed allora il tema è che è la cittadinanza italiana che non è sufficente per definire il "noi" perché i roma di Pescara (e del resto d'Italia) sono rapidamente esclusi dal noi

E' evidente  che nonostante tutti gli sforzi e gli slogan, il principio di cittadinanza è un concetto per molti nebuloso, che spesso viene confuso con quello di appartenenza ad un insieme di culture e consuetudini maggioritarie e che vengono identificate con la cittadinanza.

Ma se le seconde vengono confuse con la prima è assai probabile che il motivo stia tutto nella debolezza della prima. Insomma se non abbiamo chiaro cosa significhi essere cittadini a definirci sarà l'essere volta volta meridionali o padani, bianchi o neri, juventini o interisti, cristiani o mussulmani, insomma via  via con le molte identità che ogni persona si porta dietro.

Colpisce poi quell'appello ad emarginare gli zingari, paradossalmente opposto a ciò che più frequentemente si sente dire quando il problema di un insediamento di Roma: "ma loro non si vogliono integrare".

Ma davvero l'integrazione deve essere una funzione della cittadinanza? non sarebbe più giusto ricordare che chi nasce, vive ed opera in un paese ha doveri e diritti che prescindono dal colore della pelle, storia famigliare e cultura e propensione ad essere simpatico ai vicini di casa?


8.5.12

La rete siamo noi

Qualche tempo fa mi chiedevo quanto valessero le mie telefonate skype, oggi scopro che valgo anche per la mia semplice esistenza sui social network. Per la cronaca la mia valutazione è di $251.  Speravo di più...

20.4.12

La festa del Grillo


I quotidiani di questi giorni parlano sempre più diffusamente di una grande crescita nei sondaggi del movimento 5 stelle di cui Beppe Grillo è portavoce e punto di riferimento.

Ed in effetti capita sempre più spesso di ricevere da amici e conoscenti segnalazioni entusiaste di questa o quella iniziativa del movimento, quasi sempre corredate da link al blog di Beppe Grillo.

Siccome non mi piace il termine "antipolitica", che mi sembra tanto una riproposizione del vezzo di inventare parole dal suono apparentemente sinistro, per squalificare un avversario, proverò a dire cosa mi va e cosa non mi va di quegli appelli che mi arrivano da persone che stimo, o che mi sono simpatiche.

Aggiungo che il termine "antipolitica" in realtà dice molto di più delle paure di chi lo usa che non della realtà. Perché non vi è dubbio che i gesti dei soggetti esterni al mondo politico attuale, e di cui si parla, abbiano una forte incidenza politica, percui di anti c'è poco: se 5 stelle presenta candidati che poi lavoreranno nelle istituzioni politiche, si potrà al massimo dire di una politica realizzata in modi diversi da quelli che abbiamo visto in questi anni, peraltro già diversi da quelli di qualche lustro fa...

Ma torniamo a 5 stelle e Grillo: ogni tanto il secondo esce con qualche dichiarazione sopra le righe, che mescola pezzi di senso comune, cose assolutamente condivisibili ed autentiche nefandezze ed allora i vari volenterosi militanti del movimento si affrettano a dire che Grillo è solo un comico prestato alla politica, e che si limita a fare il megafono del movimento. 

E qui si introduce la prima questione: o Grillo non rappresenta nessuno, ed allora mi aspetto che il movimento indichi quali sono i luoghi dove posso informarmi legittimamente sulle posizioni del movimento senza confondermi con le idee di Grillo, o invece, come sospetto, Grillo è l'anima del movimento e probabile motivo di un suo possibile successo; ed allora dico un paio di cose che spiegano perché nonostante il buon senso di alcune proposte di 5 stelle, non potrò votarlo.

Ne dico solo due e che a mio avviso rientrano nella suddetta categoria delle nefandezze:

a) la posizione sulle tasse: nelle sue ultime uscite Grillo ironizza molto sulle iniziative della Guardia di Finanza suggerendo che queste servano ad addossare la colpa della crisi sulle persone comuni anziché sui politici o sulle banche, a suo avviso, responsabili del disastro.

E' una posizione molto ruffiana e sbagliata: è assolutamente vero che nella crisi ci sono responsabilità diverse, e che direzione politica e sistemi finanziari abbiamo responsabilità enormi, tuttavia una cosa assai provata e provabile è che i grandi numeri che mettono in difficoltà il paese sono dati anche dalla diversa fedeltà fiscale delle varie categorie: insomma, è possibile che, come dice Grillo, se lo stato avesse incassato di più, i politici avrebbero mangiato di più, ma è assai più probabile che a fronte di un prelievo più distribuito ci sarebbe stata più attenzione da parte dei tassati sulla destinazione delle tasse. 

Insomma pare che a Grillo non venga il sospetto che in realtà evasione fiscale di intere categorie e impunità del ceto politico che quelle categorie eleggono siano due facce della stessa medaglia. In realtà sono certo che a Grillo queste cose siano bene presenti, solo che serve in tempi di elezioni assolvere il popolo dalla responsabilità di aver eletto dei lestofanti perché promuove l'idea di un popolo buono traviato da altri, i "loro" come spesso vengono definiti, che invece sono cattivi e vanno mandati a casa.

b) la posizione sugli immigrati ed i loro figli, come è noto Grillo è contro alla cittadinanza ai figli degli immigrati: rientra nell'idea reazionaria di popolo illustrata sopra. Un popolo storicamente definito ma indeterminato nelle sue stratificazioni (un tempo si sarebbe detto di classe), intrinsecamente buono o saggio e rovinato dalle scelte di minoranze che per rispondere ai bisogni di banchieri, industriali e c. si trova a doversi confrontare con immigrazioni di vario genere che ne stravolgono la natura. 

E' reazionaria in quanto è una nozione che guarda al passato senza neppure notare le molte stratificazioni dovute alla storia delle migrazioni passate, ed è reazionaria perché giudica le persone non per quello che sono nella società ma per la loro provenienza. Ed invece la base di ogni idea moderna della cittadinanza, e per inciso anche ciò che può ridurre anche se non eliminare le tensioni, è che gli individui sono portatori di diritti per quello che sono, e questo dipende da dove vivono, dove lavorano, dove studiano e dove sono nati. 

E ragazzi nati e cresciuti in Italia sono semplicemente italiani.  

31.3.12

Corrotti e corruttori


l'8 marzo scorso gli italiani hanno appreso della morte di Franco Lamolinara e del suo collega Cristopher Mc Manus nel corso di un blitz delle truppe speciali inglesi in Nigeria. Ed i dettagli dell'operazione sono stati ripetuti per alcuni giorni in tutte le edizioni dei telegiornali, così come è stata ripetuta la descrizione sommaria del gruppo boko haram, responsabile prima del rapimento e poi dell'uccisione di Franco Lamolinara e del suo collega.

Una descrizione sommaria, che ricordo come il gruppo estremista islamico sia un gruppo che si oppone violentemente a tutto ciò che è occidentale, a partire dalla educazione.

E' una descrizione sufficiente a dire qualche cosa di più sull'organizzazione protagonista di un episodio di cronaca ma che aggiunge poco a quel che sappiamo di uno dei tanti motivi di tensione in un paese che è il più popoloso dell'Africa ed è la seconda economia dopo il Sudafrica, e sopratutto non spiega perché quel movimento responsabile di atti efferati, abbia eletto a principale bersaglio delle sue attività l'educazione occidentale, in gran parte dell'Africa invece vista come una opportunità di avanzamento personale, e sopratutto non fornisce motivi per capire perché abbia qualche seguito un movimento con obbiettivi apparentemente così lontani dal senso comune.

Qualche settimana fa un programma radiofonico mi ha dato una spiegazione, grazie ad una intervista ad un ricercatore universitario in cui veniva messa in immediata relazione il seguito di boko haram con la insostenibile corruzione del paese, una corruzione che aveva devastato le strutture tradizionali della società e che boko haram, nella sua propaganda, faceva risalire all'arrivo dell'occidente con le sue scuole e sopratutto con le sue società petrolifere. 

Ecco allora che non è solo fanatismo, ovvero questo da solo non riesce a spiegare il perché del successo, così come il fondamentalismo non spiega perché da altre parti del mondo centinaia di ragazzi preferiscono indossare una cintura imbottita di esplosivo e farsi saltare in aria rispetto alla prospettiva offerta dai rispettivi governi.

Come a volte accade, le parole di quel ricercatore hanno avviato in me un po' di riflessioni: la prima era che il ricercatore era nigeriano, e non il solito professore occidentale che parlava di un paese lontano. Era qualcuno che parlava della sua terra e che ci ricordava come ci fosse molto di più del semplice fanatismo.  E' la riflessione che dovremmo fare sempre quando si esaminano i fenomeni sociali. La elencazione di un consolatorio elenco dei buoni e dei cattivi non aiuta: i fenomeni sociali spesso producono effetti pessimi al di la delle caratteristiche individuali dei protagonisti, e pertanto è bene capire che se la corruzione produce anche i boko haram, non sono sufficenti teste di cuoio bene addestrate a contrastarli. 

La seconda considerazione è stata che quella trasmissione che seguivo andava in onda su una radio sudafricana: in Italia, certamente anche per motivi linguistici, un eventuale ma improbabile approfondimento su Boko Haram sarebbe stato affidato a qualche esperto italiano, che per quanto onesto avrebbe comunque riferito su un argomento studiato spesso da una scrivania lontana. 

La terza considerazione è sulla corruzione, un tema che non sempre vediamo in tutte le sue ramificazione: quando pensiamo ai problemi dell'Africa vediamo spesso volti di governanti corrotti, o  strutture di apparati statali che vivono grazie alle mazzette, e fra noi e noi pensiamo a paesi arretrati, privi della forza della legge e che "vanno salvati da loro stessi" come ogni tanto esclama qualcuno preso da furore missionario.  

Invece nelle scorse settimane la Nigeria è stata interessata da una serie di manifestazioni notevoli, gli segnale dell'esistenza di movimenti sociali estesi che criticano lo stato di cose attuale: il tipo di risonanza e solidarietà internazionale che questi hanno avuto non è stato quella che avrebbero meritato. 

Aggiungo che probabilmente spesso equivochiamo quando si parla di solidarietà internazionale: non si tratta di manifestare perché in Nigeria finisca la corruzione, ma perché ai nostri concittadini non sia più consentito di fare i corruttori. E sì perché in molte parti del mondo la corruzione nasce dalla necessità di trovare scorciatoie rapide per accedere alle risorse di quel paese, ed i corruttori stanno nei consigli d'amministrazione occidentali. 

Certo nessuna relazione di bilancio parlerà di spese per corrompere questo o quel politico, ma sicuramente ci saranno le voci dedicate a commissioni, e dietro a quelle voci spesso si nasconde il prezzo per poter continuare ad estrarre petrolio o qualche altra risorsa in questo o quel paese, ed è un prezzo che le società sono ben lieti di pagare se quella commissione garantisce gli utili enormi che le industrie estrattive hanno realizzato in questi anni. 

In realtà non siamo all'anno zero, e oramai da qualche tempo è in corso una iniziativa internzionale denominata EITI che punta a rendere più trasparenti le contabilità di multinazionali estrattive e governi attraverso un processo di controllo incrociato dei conti.

E' un processo che ha i suoi lati positivi ma molti limiti, ad esempio ad oggi solo 30 paesi sono hanno pubblicato un rapporto EITI. Se si considera che ad esempio la Shell opera in 90 paesi si capisce quanto sia incompleto il quadro che può emergere. Ma probabilmente la critica maggiore ad EITI viene dal fatto che i rapporti finali sono per dati aggregati, rendendo assai difficile ad esempio ad organizzazioni indipendenti di valutare l'operato di amministratori ed imprese amministrative in uno specifico contesto. 

Per fare un esempio: non è la stessa cosa, per un residente di un'area inquinata da una industria petrolifera sapere che ci sono stati dei pagamenti al governo locale per una bonifica oppure sapere che genericamente il gruppo in quel paese ha pagato per delle bonifiche. Nel primo caso la correlazione fra ciò che sta sulla carta e la realtà sul campo è immediatamente individuabile, nel secondo no.

Per ovviare a questo negli Usa nel 2010 nella legge di riforma dei mercati finanziari Dodd-Frank, vi è una parte che impone alle industrie estrattive quotate sui mercati finanziari USA di indicare i pagamenti ai governi dove operano, in maniera dettagliata e suddivisa per imprese e progetti. 

La risposta delle imprese petrolifere è stata furibonda; da chi ha parlato di violazione della riservatezza nei rapporti con i governi, a chi invece ha parlato di svantaggio competitivo rispetto alla concorrenza.

Eppure pare evidente che il modo migliore per combattere la corruzione ovunque sia quella di rendere molto difficile al corruttore di operare ed al corrotto di nascondere i suoi proventi. 

Negli USA il tema è ben presente nel dibattito politico, in Europa se ne discute, in Italia mi pare si faccia già fatica ad affrontare il tema della corruzione casalinga, figurarsi quella operata ad altre latitudini. Eppure sarebbe utile, magari ci sorprenderemmo meno del fatto che un gruppo di fanatici faccia proselitismo additandoci come appartenenti ad una cultura di corruttori. 

18.3.12

Storie dankale


Villaggio di Buya - Eritrea
Una volta, di ritorno da Buya dove seguiva un nostro progetto, Salomon mi raccontò come i vecchi del villaggio gli avessero detto che si era perso per pochi giorni una grande cerimonia di riconciliazione che si era tenuta da quelle parti. 

E proseguì raccontandomi come in quella comunità fosse accaduto qualche anno prima un fatto di sangue, e che il responsabile aveva scontato la pena ed era in procinto di essere scarcerato. 

I vecchi del villaggio temevano che il rientro al paese della persona avrebbe dato luogo ad una nuova serie di tensioni e perciò erano corsi ai ripari, chiamando rappresentanti delle varie famiglie e clan coinvolte per una cerimonia di riconciliazione. 

E' questa una cosa comune nelle culture tradizionali, che in assenza di sistemi legali complessi hanno sempre  sistemi più o meno strutturati di gestione della giustizia, in cui fra le altre cose si prevede comunque anche la possibilità della riconciliazione, perché accanto all'esigenza di giustizia che è propria delle vittime, l'armonia è invece indispensabile alla sopravvivenza di comunità in cui la coesione è uno degli elementi necessari per sopravvivere in ambienti ostili.

Non ci sorprese quindi l'evento, e del resto fra cerimonie, inaugurazioni, visite ufficiali e c. avevamo avuto modo di capire l'importanza che avevano le occasioni conviviali per quel piccolo villaggio di pastori ed agricoltori saho ed afar situato pochi km a nord del vertice superiore della depressione dankala: erano occasioni in cui si macellava una capra e la si cuoceva direttamente su delle pietre arroventate precedentemente nel fuoco e poi si passava il resto del tempo a chiaccherare e bere the.

Quello che invece ci colpì fu che per convocare la riunione il villaggio aveva spedito messaggeri a piedi o a dorso di cammello presso i rappresentanti delle varie famiglie coinvolte e che abitavano in zone anche piuttosto lontane, alcune dall'altra parte del confine con l'Etiopia. Un confine quest'ultimo chiuso oramai da qualche anno e pesantemente controllato dagli eserciti eritrei ed etiopici. 

Cosa che non ne aveva impedito l'attraversamento da parte di emissari e rappresentanti delle varie famiglie abitanti in Etiopia.    

La vicenda dimostrava varie cose:

la prima sicuramente è la forza dei legami fra gli appartenenti a quel gruppo etnico e linguistico. Alcuni commentatori sostenevano che un elemento motivante il nazionalismo eritreo fosse proprio la necessità di costruire una identità più forte delle appartenenze etniche, che in quel paese, come peraltro in gran parte dell'Africa, erano tutte attraversate da confini più o meno arbitrari.

La seconda cosa che mi fece notare la vicenda era una certa forza delle strutture tradizionali del villaggio, anche in un paese con un governo che aveva ed ha un'attenzione al controllo del territorio fortissima. E del resto lo avevamo notato anche in altre occasioni: quando visitavamo il villaggio con qualche autorità governativa a volte quest'ultima si tratteva per un incontro con le autorità tradizionali, ed i toni di voce non erano sempre pacati.

La terza cosa che quel confine, su cui si era combattuta una sanguinosa guerra "vecchio stile", con trincee da prima guerra mondiale e decine di migliaia di morti, era un confine "poroso", come ogni tanto lo definivano i rapporti delle Nazioni Unite. Un confine che veniva attraversato da chi ne aveva motivo, a prescindere dalle volontà degli eserciti che su quella linea si fronteggiavano.

In queste ore quel confine, anche se qualche km più a sud, ha visto invece di nuovo un esercito all'opera. Con un comunicato il governo etiopico ha annunciato di aver attaccato una base militare di un movimento indipendentista afar che, dice il comunicato, in territorio eritreo aveva trovato ospitalità e supporto.

Forse non è la prima volta che questo accade, è sicuramente la prima volta che viene ammesso ufficialmente da quando nel 2000 fu firmato il trattato di pace che mise fine alla guerra di confine fra i due paesi. 

Sicuramente le tensioni fra autorità centrale etiopica e movimenti indipendentisti afar predatano quell'armistizio, e da quel che se ne sa, qualche tensione negli anni gli afar ne hanno avuta anche con il governo di Asmara. E sicuramente le scaramuccie di confine che hanno anticipato la guerra fra Eritrea ed Etiopia sono avvenute in gran parte in quella vasta area, scarsamente abitata ed attraversata dal confine fra Etiopia ed Eritrea che per gli afar da sempre è la loro terra.

Per adesso abbiamo il solito appello alla cautela di Stati Uniti e Francia, un duro comunicato del governo eritreo, che in sostanza dice di non abboccare, e mi immagino molti giornalisti a rinfrescarsi la memoria perché non si sa mai: l'Etiopia insiste.

13.3.12

Kony 2012 ovvero l'orco ai tempi di twitter


Kony, ma chi è? se lo devono essere chiesti in molti fra quelli che scrutano i temi più popolari su internet per provare ad anticipare tendenze e temi di discussione. 

Non poteva infatti sfuggire l'enorme popolarità di un video dedicato ad un oscuro personaggio africano messo in rete pochi giorni fa e che ha totalizzato nel giro di poche ore decine di milioni di contatti.

Oscuro personaggio in realtà solo per i molti che non si sono mai interessati delle questioni del continente, perché invece le vicende della Lord's Resistance Army eran ben note a chi si occupa d'Africa, anche fra chi non segue direttamente  ciò che accade in quelle aree fra Repubblica Centroafricana, Uganda e Congo dove da trentanni agisce una delle armate più singolari e crudeli che abbiano combattuto in quelle terre. 

Una armata i cui leader si sono conquistati il dubbio privilegio di essere stati i primi individui per cui la Corte Criminale Internazionale, costituita in base allo statuto di Roma del 17 luglio 1998, abbia emesso nel 2005 un mandato di cattura internazionale per crimini contro l'umanità.

Comunque  a chi ignorava deve essere bastato poco, magari una semplice ricerca google, o la relativa voce wikipedia, per capire che il personaggio meritasse una qualche attenzione.

Chiarito che il messaggio "catturate Kony vivo o morto" ha qualche ragion d'essere, la discussione si è subito spostata dall'obbiettivo della campagna, alla forma della campagna e sui promotori della stessa, con posizioni radicalmente diverse fra i vari commentatori chiamati ad esprimersi su una iniziativa che, come detto, nel giro di poche ore ha visto una diffusione virale del video, con decine e decine di milioni di condivisioni fra facebook e twitter. 

Insomma, milioni di persone use a postare foto di gattini, commentare epiche sbronze e scambiarsi auguri di buon compleanno, ad un tratto si sono date all'attivismo, condividendo il video della campagna.

Personalmente ho trovato interessanti le posizioni dei commentatori africani, oscillanti fra irritazione per l'ennesima brutta storia africana, critica per l'eccessiva semplificazione del messaggio, quando non la sottolineatura di possibili aspetti meno nobili nella vicenda, come ad esempio l'interesse dell'Uganda per una area di confine fra Congo ed Uganda dove ci sarebbero ricchi giacimenti petroliferi.

Ho anche notato come anche chi si è dimostrato assai più tenero nei confronti dei promotori, come Chris Blattman, che alle vicende della LRA ha dedicato molto tempo, ha fatto notare che dire che va preso, vivo o morto, significa dover accettare la possibilità di farsi largo sparando in un campo dove le guardie del corpo del cattivo di turno sono tutte bambini al massimo di 13 anni...

Insomma non pare essere una affatto una cosa semplice. Come appare evidente ad esempio leggendo questo lungo articolo dedicato alla verifica dei vari aspetti della vicenda.

Ed infatti non credo che il tema della cattura di Kony sia l'elemento più importante fra quelli che l'indubbio successo della campagna internet sta facendo emergere. Ad esempio  Giovanni Fontana sul Post sostiene che per chi si occupa di sviluppo, la campagna Kony 2012 sarà uno spartiacque: una specie di 11 settembre dopo di cui niente sarà più lo stesso. 

E sono già partite le analisi anche sul ruolo dei nuovi media nelle campagne di advocacy ed i paragoni con primavere arabe e c. E del resto questo elemento dei social media come cambio di pardigma nell'advocacy è esplicitato dagli stessi autori della campagna, il cui obbiettivo era rendere Kony "famoso" nel giro di poche ore.

Obbiettivo senza dubbio raggiunto, ma mi chiedo se davvero siamo ad un cambio di paradigma, o se semplicemente non sia cambiato il mezzo con cui avviare campagne che intendono creare attenzione su soggetti specifici.

Io non vedo una grande novità ne vedo troppe similitudini con le primavere arabe.

Non vedo novità perché la campagna Kony 2012 è partita arruolando celebrity con un massiccio numero di contatti come Oprah, P Diddy, Rihanna. Insomma una volta si organizzava un live aid con decine di artisti, oggi basta un hashtag ed un po' di persone note che rilanciano il tutto per ottenere una penetrazione simile del messaggio, e magari un successo simile delle campagne di fundraising, con l'unica caratteristica che, come i vari live aid, gli appelli non possono essere troppo continui, perché l'attenzione è inevitabilmente calante. 

Ben diverso il ruolo dei social network nelle primavere arabe: in quel caso non si trattava di far rimbalzare un appello nel mondo virtuale ma di chiamare persone fisiche a confrontarsi in uno spazio fisico reale, fosse questo una piazza o una strada od una semplice riunione di coordinamento. E a chiamare era l'amico, il conoscente, il vicino di casa, vero o virtuale. Insomma il social network come premessa di un network di persone in carne ed ossa. 

Mi pare che le cose differiscano non poco. 

I social network, ed i nuovi media in generale, questo si che è vero, consentono una rapida canalizzazione delle emozioni. Un tempo l'immagine sul giornale al massimo dava luogo a qualche discussione al bar o sul luogo di lavoro, con annesse dichiarazioni più o meno roboanti ma senza la contabilità dei "mi piace" o dei click sul filmato. 

Oggi invece ecco che circola l'immagine del gattino lasciato nel cassonetto, seguita a ruota dalla bimba che canta a squarciagola, per poi essere sopraffatto da qualche altra piccola o grande atrocità, tutto con rapidi click e mipiace. 

Una domanda che verrebbe da porsi di fronte a questo atteggiamente compulsivo è "ma esiste una gerarchia?", Dovendo scegliere fra le balene, la foresta amazzonica, Amina e Kony, a quale causa vorremmo fosse dedicato più tempo? "Save us not the Whales" urlavano i Clash già una trentina di anni fa.

In realtà è una domanda malposta, perché le emozioni, pur avendo a volte intensità diverse, non sono un buon modo per costruire gerarchie. 

Percui anche se soffermandoci un attimo non avremmo dubbi in merito a quale causa dedicarci, non ci fermiamo, ed invece  clicchiamo, inoltriamo e retwettiamo allegramente, perché tutte le volte pensiamo che sia quella la campagna che richiede la massima attenzione.

Ma forse la verità è che non è sempre la causa in se il vero oggetto d'attenzione: spesso invece siamo a fare appello al nostro mondo, ai nostri sogni, ai nostri desideri ed ai nostri incubi. 

Insomma e per tornare a Kony: qualche volta è capitato di sentire di storie atroci avvenute in remote zone della nuova guinea o della foresta amazzonica, per archiviarli con un po' di stupore e modesta commiserazione  come cose di un'altro mondo. 

Che la forza della campagna di Kony stia invece nell'aver portato una crudele storia d'Africa nel nostro mondo, parlando dei nostri governanti, dei nostri soldati, delle nostre armi, dei nostri tribunali? E quante altre storie simili potrebbero essere raccontate?

4.3.12

Il conto del dottore


Qualche giorno fa i giornali hanno riferito della iniziativa della sanità lombarda di comunicare ai malati ricoverati, al momento della dimissione, il costo delle prestazioni effettuate.

Sui giornali e sui social network le prese di posizione sono state assai contrastanti, da quelle più favorevoli a quelle invece assolutamente contrarie, come quella dell'ordine dei medici che hanno definito l'inziativa "esecrabile ed umiliante".

Nella lettura degli interventi l'impressione è che in molti casi più che della iniziativa in se, quello che veniva discusso era la sanità lombarda ed in particolare il presidente della Regione Formigoni, che notoriamente non è simpatico a tanti. E' questo un problema presente in molti dibattiti: anziché attenersi al tema specifico si parla di quello che si ha più a cuore e che assimiglia di più all'argomento in discussione.

La questione è se è giusto che ognuno di noi conosca il peso e il valore dei servizi che ci vengono erogati. Perché è indiscutibile che hanno un valore economico, a parte quello inestimabile della salute.

Insomma un cittadino che si lamenta, e a volte a ragione, della scarsa qualità dei servizi forniti a fronte delle tasse pagate (e questa cifra più o meno la conosciamo), ha il diritto di sapere anche il costo di questi servizi?

In sostanza la domanda è se è giusto "monetizzare" parti della nostra vita, come la cultura, l'istruzione o la salute che non vorremmo mai avessero un valore venale?

E tuttavia cultura, istruzione e salute hanno dei costi, e temo che non conoscerli sia probabilmente uno degli aspetti di una visione paternalistica della società, con da una parte amministratori e tecnici che gestiscono la borsa, e dall'altra la comunità dei beneficiari.

Ma a monte c'è probabilmente la necessità di capire cosa significa appartenere ad una comunità di persone. Un elemento che ha i suoi aspetti "alti" e gli elementi anche più utilitaristici del "do e pertanto ricevo". Sapere di far parte di una comunità è infati un elemento importante per la coesione sociale.

In effetti se si ripercorre la storia europea del welfare state, è possibile rilevare come si sia sviluppato nel pensiero politico degli ultimi anni il principio che il pubblico deve fare sempre meno perché "i privati fanno meglio", per cui si al pubblico si riserva via via il compito di occuparsi delle fasce più povere, oppure si introduce il principio della progressione nel pagamento dei servizi.

In un articolo apparso qualche settimana fa sul british medical journal  intitolato "The assault on universalism: how to destroy the welfare state" gli articolisti invece fanno notare come la gratuità ed universalità di un nucleo di servizi sia funzionale alla coesione sociale: ad un certo punto infatti chi si trova a pagare attraverso la fiscalità per servizi di cui non usufruisce o per cui deve pagare, si chiede per quale motivo debba partecipare alle spese.

E' quello che succede laddove ad esempio il sistema sanitario negli USA è finanziato in gran parte dalle assicurazioni private. In effetti il dibattito sul costo del segmento pubblico è in quel paese accesissimo  appunto perché il sistema è finanziato da tutti ma solo una parte, la più povera ne è beneficiaria.

Insomma, personalmente non mi dispiace sapere quanto costo allo sistema sanitario, anzi, credo che mi sia utile a capire che l'appartenenza ad una comunità ha i suoi vantaggi, e sopratutto a ricordarmi che i soldi spesi sono soldi di tutti, e che pertanto vanno usati con cura, e che sopratutto mi fanno sentire orgoglioso di appartenere ad una società che pensa sia giusto spenderli per me, come per chiunque altro appartenga alla mia comunità che ne abbia bisogno, a prescindere da stato sociale, origine e convinzioni.    

25.2.12

Si vis pacem para bellum?


"Se mi chiedete di conquistare quella collina so esattamente come fare: sono stato addestrato per questo. Ma mantenere la pace in un paese diviso da una guerra civile è tutta un'altra cosa", così confessava un alto ufficiale della forza di pace posizionata in Burundi per i 9 anni successivi alla firma degli accordi di pace del 2000.

A raccontarmelo è stato Michale Lapsley, un pastore anglicano cui i servizi segreti dell'apartheid avevano fatto saltare le mani con un pacco bomba spedito poco dopo le liberazione di Mandela nel febbraio del 1990. 

Ho incontrato padre Lapsley poche settimane fa: era a Firenze per raccontare a 9000 ragazzi cosa possa voler dire "fare la coda giusta", e come tuttavia ne valga la pena.

Mentre gli spiegavo cosa fosse l'iniziativa cui avrebbe partecipato, e passando da un argomento all'altro, come capita in una cena, ci eravamo appunto soffermati sulla straordinaria contraddizione del nostro mondo contemporaneo, che assegna il compito di fare la pace a uomini addestrati ad ammazzare le persone in modo professionale.

La pace appunto, una cosa assai diversa dalla collina di cui parlava l'ufficiale. 

Certo oggi i soldati hanno una formazione più sofisticata, che comprende anche il "peacekeeping", ma rimane il fatto che il centro della formazione militare è la conqusta del territorio preferibilmene mediante la "neutralizzazione", meglio se permanente, di chi quel territorio difende.

Semplificando, forse in modo eccessivo, si può dire che il ruolo della forza di pace per molti anni è stato relativamente chiaro: c'era un conflitto combattuto sul campo seguito da armistizio che divideva il terreno fra i contendenti. Le forze di pace si mettevano ad interposizione delle parti, per evitare che qualche colpo sparato più o meno per caso facesse ripartire la carneficina. 

Un ruolo scomodo perché i pericoli potrebbero venire da tutte e due le parti, ma non troppo diverso da quello per cui i militari del mondo vengono addestrati: difendere un pezzo di terra. 

Le cose sono cambiate terribilmente negli ultimi anni: le guerre si combattono sempre meno  fra armate di paesi e aree diverse, e sempre più fra persone, idee e comunità che vivono nello stesso territorio, nello stesso paese: non ci sono linee blu da presidiare, zone smilitarizzate da difendere. Ci sono invece comunità da capire e idee da conoscere, e sopratutto c'è il dannato rischio, quando non la certezza, di dover sceglier da che parte stare.

Ed in effeti nel corso degli anni l'interventismo internazionale è passato dall'invio di contingenti di pace per interposizione, a quello invece di un uso della forza come braccio armato della comunità internazionale rispetto a questo o quel soggetto, spesso parte dichiarata o presunta dal grande franchising di "al Qaida".  

Il problema è che a questo punto si tratta di guerra, e della peggiore, perché non si combatte fra eserciti ma fra truppe provenienti da fuori ed apparati appartenenti a guerriglie più o meno coordinate. 
E sopratutto una guerra al termine della quale non vi sono molte opzioni, o una parte annienta l'altra, o i contendenti dovranno comunque sedersi attorno ad un tavolo per trovare il modo migliore per vivere sullo stesso territorio, perché appunto non si tratta di respingere un invasore al di la della collina, ma di trovare come convivere nelle stesse comunità. 

E la pace richiede che attorno al tavolo ci siano tutti, non è consentito scegliersi gli interlocutori, come fa notare in un twit Matteo Guglielmo, a proprosito di una dichiarazione di Hillary Clinton. Sintetizza Matteo: "Hillary Clinton contro raid aerei in Somalia e contro il dialogo con al-Shabaab http://bit.ly/w2e6pv ...un pò contraddittorio...". 

Ma torniamo al Burundi: le truppe di pace hanno lasciato il paese dopo 9 anni, il loro impiego era stato a protezione di un processo di pace stabilito da un accordo fra tutte le parti. Un accordo fortemente voluto da Nelson Mandela, che si impegnò fortemente nella mediazione, con toni che trapaiono bene nei suoi appunti personali del tempo, pubblicati nel libro "Conversarion with myself" (uscito anche  in italiano col titolo "Io, Nelson Mandela – Conversazioni con me stesso"). 

Vale la pena ricordarlo sia perché oggi le agenzie stanno tutte battendo la notizia del ricovero di Mandela in ospedale, sia perché 22 anni fa, pochi giorni dopo la sua liberazione dal carcere, il 25 febbraio del 1990 in un discorso nel  KwaZulu-Natal, dove era in corso un conflitto fratricida,  invitò tutti a prendere i coltelli ed i machete e buttarli nel mare. Ci volle ancora molto tempo perché il suo appello venisse accolto in pieno, ma com'è noto, alla fine ebbe successo.