25.2.12

Si vis pacem para bellum?


"Se mi chiedete di conquistare quella collina so esattamente come fare: sono stato addestrato per questo. Ma mantenere la pace in un paese diviso da una guerra civile è tutta un'altra cosa", così confessava un alto ufficiale della forza di pace posizionata in Burundi per i 9 anni successivi alla firma degli accordi di pace del 2000.

A raccontarmelo è stato Michale Lapsley, un pastore anglicano cui i servizi segreti dell'apartheid avevano fatto saltare le mani con un pacco bomba spedito poco dopo le liberazione di Mandela nel febbraio del 1990. 

Ho incontrato padre Lapsley poche settimane fa: era a Firenze per raccontare a 9000 ragazzi cosa possa voler dire "fare la coda giusta", e come tuttavia ne valga la pena.

Mentre gli spiegavo cosa fosse l'iniziativa cui avrebbe partecipato, e passando da un argomento all'altro, come capita in una cena, ci eravamo appunto soffermati sulla straordinaria contraddizione del nostro mondo contemporaneo, che assegna il compito di fare la pace a uomini addestrati ad ammazzare le persone in modo professionale.

La pace appunto, una cosa assai diversa dalla collina di cui parlava l'ufficiale. 

Certo oggi i soldati hanno una formazione più sofisticata, che comprende anche il "peacekeeping", ma rimane il fatto che il centro della formazione militare è la conqusta del territorio preferibilmene mediante la "neutralizzazione", meglio se permanente, di chi quel territorio difende.

Semplificando, forse in modo eccessivo, si può dire che il ruolo della forza di pace per molti anni è stato relativamente chiaro: c'era un conflitto combattuto sul campo seguito da armistizio che divideva il terreno fra i contendenti. Le forze di pace si mettevano ad interposizione delle parti, per evitare che qualche colpo sparato più o meno per caso facesse ripartire la carneficina. 

Un ruolo scomodo perché i pericoli potrebbero venire da tutte e due le parti, ma non troppo diverso da quello per cui i militari del mondo vengono addestrati: difendere un pezzo di terra. 

Le cose sono cambiate terribilmente negli ultimi anni: le guerre si combattono sempre meno  fra armate di paesi e aree diverse, e sempre più fra persone, idee e comunità che vivono nello stesso territorio, nello stesso paese: non ci sono linee blu da presidiare, zone smilitarizzate da difendere. Ci sono invece comunità da capire e idee da conoscere, e sopratutto c'è il dannato rischio, quando non la certezza, di dover sceglier da che parte stare.

Ed in effeti nel corso degli anni l'interventismo internazionale è passato dall'invio di contingenti di pace per interposizione, a quello invece di un uso della forza come braccio armato della comunità internazionale rispetto a questo o quel soggetto, spesso parte dichiarata o presunta dal grande franchising di "al Qaida".  

Il problema è che a questo punto si tratta di guerra, e della peggiore, perché non si combatte fra eserciti ma fra truppe provenienti da fuori ed apparati appartenenti a guerriglie più o meno coordinate. 
E sopratutto una guerra al termine della quale non vi sono molte opzioni, o una parte annienta l'altra, o i contendenti dovranno comunque sedersi attorno ad un tavolo per trovare il modo migliore per vivere sullo stesso territorio, perché appunto non si tratta di respingere un invasore al di la della collina, ma di trovare come convivere nelle stesse comunità. 

E la pace richiede che attorno al tavolo ci siano tutti, non è consentito scegliersi gli interlocutori, come fa notare in un twit Matteo Guglielmo, a proprosito di una dichiarazione di Hillary Clinton. Sintetizza Matteo: "Hillary Clinton contro raid aerei in Somalia e contro il dialogo con al-Shabaab http://bit.ly/w2e6pv ...un pò contraddittorio...". 

Ma torniamo al Burundi: le truppe di pace hanno lasciato il paese dopo 9 anni, il loro impiego era stato a protezione di un processo di pace stabilito da un accordo fra tutte le parti. Un accordo fortemente voluto da Nelson Mandela, che si impegnò fortemente nella mediazione, con toni che trapaiono bene nei suoi appunti personali del tempo, pubblicati nel libro "Conversarion with myself" (uscito anche  in italiano col titolo "Io, Nelson Mandela – Conversazioni con me stesso"). 

Vale la pena ricordarlo sia perché oggi le agenzie stanno tutte battendo la notizia del ricovero di Mandela in ospedale, sia perché 22 anni fa, pochi giorni dopo la sua liberazione dal carcere, il 25 febbraio del 1990 in un discorso nel  KwaZulu-Natal, dove era in corso un conflitto fratricida,  invitò tutti a prendere i coltelli ed i machete e buttarli nel mare. Ci volle ancora molto tempo perché il suo appello venisse accolto in pieno, ma com'è noto, alla fine ebbe successo.

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