10.1.11

A proposito di uno spot sul sostegno a distanza.

Qualche anno fa stavo accompagnando una delegazione di sindacalisti del sindacato dei pensionati in un remotissimo villaggio africano. Il gruppo, che aveva finanziato in quel paese un bell'intervento grazie al quale era stato realizzato un asilo, stava visitando altre zone del paese ospite dell'amministrazione della regione.

Nel villaggio venimmo accolti con balli e canti e ci venne offerto nella capanna del capovillaggo un pranzo tipico della ospitalità del paese. Alla fine del pranzo, dopo i discorsi ufficiali, entrò una deliziosa bambinetta vestita di bianco con un mazzo di fiori (finti).

Ovviamente gli anziani ospiti, tutti con nipotini a casa, si intenerirono ed uno mi chiese di lasciare qualche cosa alla piccola. Dopo qualche consultazione con il mio collaboratore locale decidemmo per un contributo (per noi modesto) per l'educazione della bambina.

Passarono pochi minuti e si presentò, con nostro imbarazzo, un altro padre che spingeva in avanti sua figlia vestita di bianco e con fiori finti recuperati in tutta fretta non si sa da dove.

Mi sono chiesto nei giorni successivi quali dinamiche fossero nate in quel villaggio dopo quell'episodio, e ho cercato sempre di evitare in seguito che una cosa simile potesse accadere di nuovo.

Ma forse basterebbe domandarsi quale sarebbe la nostra reazione e come ci muoveremmo nella nostra comunità se ad un certo punto un benefattore sconosciuto, senza alcuna spiegazione ragionevole per la nostra cultura, decidesse di aiutare il figlio del nostro vicino di casa anziché il nostro.

Racconto questo episodio perché l'altro giorno su un canale tv ho visto uno spot della Campagna di comunicazione sul Sostegno a distanza promossa dal governo italiano.

Lo spot, molto semplice nella sua realizzazione, rifugge dall'uso dei vari effettacci che troppo spesso vengono utilizzati quando si parla di paesi in via di sviluppo. Insomma niente bambini con mosche che svolazzano o mamme disperate che trascinano via la prole dall'ennesima tragedia. Invece viene proposto uno schermo diviso a metà ed in ogni metà una persona in cammino, la prima è un bambino in un paese africano, l'altra è una donna in un paese europeo.

Alla fine una frase invita al sostegno a distanza per consentire a quel bambino di essere un adulto che poi sarà una risorsa per il suo paese.

E' uno spot che intende promuovere un'area della cooperazione allo sviluppo assai importante in quanto, almeno sul piano della diffusione sul territorio, è sovente la prima modalità con cui molti si mettono in relazione con i temi del sottosviluppo, costituendo spesso la cifra del nostro rapporto con quei temi.

L'episodio che racconto sopra invece ci dice che le cose non sono semplici. Le dinamiche provocate da questo tipo di intervento possono essere anche negative per lo sviluppo di una comunità, e non è un caso che molte delle organizzazioni che operano nel campo del sostegno a distanza preferiscono un approccio dove si sostengono le famiglie o ancor meglio le intere comunità.

Ma non vi è dubbio che il primo elemento del successo di una campagna di sostegno è l'immagine di un bambino, visto in foto, tanto che molte organizzazioni cercano di fornire a chi sostiene a distanza un resoconto aggiornato dei progressi del bambino, spesso accompagnato da foto e lettere varie.

Sgombro subito il campo da possibili malintesi. Dal punto di vista di chi decide di sostenere qualcuno a distanza la scelta sul piano morale è nobile. Sopratutto quando ad esempio, come spesso accade, praticata in alternativa alle ossessioni consumistiche contemporanee. E mi auguro che siano tanti i genitori che anziché l'ennesimo giocattolo al figlio hanno fatto vedere la ricevuta di pagamento per un sostegno a distanza, tanto per ricordare come quello che qua per un bambino a volte è un dovere fastidioso altrove può essere un lusso non sostenibile.

E devo pure aggiungere che molte delle organizzazioni specializzate in sostegno a distanza fanno un lavoro egregio, cercando di evitare al massimo sprechi e per assicurare che i fondi vadano a buon fine. E tuttavia vorrei soffermare la mia attenzione su alcuni aspetti.

Intanto la prima questione di carattere più generale e che riguarda il nostro rapporto con le tragedie: qual'è il meccanismo che porta ad emozionarci sopratutto per i bambini? La foto del bambino implorante, o felice per il sostegno ottenuto è quasi obbligatoria in qualsiasi operazione di raccolta fondi. Per non parlare delle foto dell'attore/attrice di turno in visita ad orfanotrofi o scuole dei paesi in via di sviluppo, ritratta con il suo bel bambino in braccio.

Varrebbe la pena di notare che questa attenzione a volte ossessiva per i figli degli altri non è molto razionale, non sarebbe infatti molto meglio sostenere le famiglie di quei bambini, dando loro le possibilità di lavorare ed educare i proprio figli in modo decoroso? Non è un caso ad esempio che molti dei migliori interventi di lotta al lavoro minorile promossi dal International Programme on the Elimination of Child Labour (IPEC) dell'organizzazione internazionale del lavoro, puntino proprio sul sostegno alle famiglie dei minori che lavorano. Un tema talmente importante questo che come già detto molte organizzazioni che lavorano sul sostegno, in realtà puntano a sostenere le comunità.

Tuttavia nella iconografia del sottosviluppo appaiono poco le famiglie, salvo nella versione "madre dolente" cui accennavo poc'anzi.  Eppure in alcune parti del mondo, in Africa ad esempio, la famiglia allargata è una struttura della società che ha pesato e pesa tantissimo nel funzionamento delle comunità in tutti i suoi momenti. Dall'aiuto ai membri in difficoltà, all'assistenza dei piccoli rimasti orfani, alla raccolta di fondi per favorire lo studio (o l'emigrazione) dei membri con maggiori possibilità di "farcela".

Probabilmente ad influire sulla nostra propensione ad aiutare i bambini ci sono alcuni elementi piuttosto naturali ma non sempre positivi. La prima è l'identificazione: è abbastanza immediato per noi mettere a confronto quei bambini con i nostri figli o con i figli che vorremmo avere.

Il secondo aspetto è l'innocenza: nel nostro animo vorremmo sempre aiutare vittime innocenti, e la storia ci insegna che non sempre le vittime sono innocenti, anzi raramente nei conflitti esistono innocenti nel senso compiuto della parola. Ed allora meglio concentrarsi sui bambini, innocenti per definizione, nonostante l'età dell'infanzia sia anche età di crudeltà.

Ovviamente faremmo bene a riflettere su questa necessità di identificare sempre il "buono" ed il "cattivo" in una tragedia, perché invece la corresponsabilità dei protagonisti non le dovrebbe rendere meno pesanti. Ma è una discussione che ci porterebbe molto lontano.

Infine forse c'è la convinzione che con il nostro aiuto "loro" potranno essere come "noi", ambizione peraltro specularmente spesso presente in quelle parti del mondo, dove l'ambizione di "divenire come loro" è stato uno dei motivi evidenti nelle aspirazioni delle classi subalterne e/o nelle popolazioni colonizzate.

Ed è evidente quanto più facile sia questo processo di assimilazione se parte presto, insomma farli andare a scuola prima che perdano l'innocenza, vivendo in luoghi che sono per noi degli autentici buchi neri, di cui magari sospettiamo i vizi peggiori senza intuirne minimamente le virtù.

Ovviamente non credo che quando mettiamo le mani al portafoglio per inviare l'aiuto a qualcuno, per aiutarlo a frequentare una scuola, i cui programmi saranno probabilmente mutuati su quelli delle scuole occidentali, stiamo coscientemente compiendo una operazione di colonialismo culturale. Penso invece che probabilmente pensiamo che il progresso di quel bambino deriverà dal fatto che lo renderemo più simile a nostro figlio.

Il paradosso è che quelli che sosteniamo da piccoli trascuriamo quando in età adulta arrivano da noi, come ebbe a scrivere in una bella poesia Adriano Sofri all'indomani dei fatti di Rosarno del gennaio 2010 in cui in una parte non a caso accenna al sostegno a distanza:

"Rileggete i vostri saggetti sul Problema
Voi che adottate a distanza
Di sicurezza, in Congo, in Guatemala,
E scrivete al calduccio, né di qua né di là,
Né bontà, roba da Caritas, né
Brutalità, roba da affari interni,
Tiepidi, come una berretta da notte,
E distogliete gli occhi da questa
Che non è una donna
Da questo che non è un uomo
Che non ha una donna
E i figli, se ha figli, sono distanti,
E pregate di nuovo che i vostri nati
Non torcano il viso da voi."
(frammento da “E ora considerate se questo è un uomo" di ADRIANO SOFRI)


Il problema è che abbiamo difficoltà a pensare in termini di moltitudini, insomma siamo capaci di preoccuparci, di provare compassione e di motivarci all’aiuto più per un individuo singolo che per un gruppo o una massa di persone, per cui il singolo bambino da "salvare" ci commuove, il contesto in cui vive rischia di lasciarci indifferente, sopratutto se lontano e sconosciuto, Madre Tersa di Calcutta diceva: “se guardo alla massa non agirò mai, se guardo a uno solo, potrò farlo”.

Gli psicologi sostengono che questo deriva dal fatto che la nostra sfera emotivo/affettiva è costruita per affrontare rapidamente problemi che un tempo potevano essere di vita o di morte, quali appunto valutare se la persona che avevi di fronte fosse amica o un nemico/pericolo. Una sfera emotiva dove fra l'altro un forte peso hanno le immagini, a differenza della sfera razionale dove invece prevalgono processi logico-verbali più lenti.

Ci troviamo quindi di fronte ad una sfida quasi impossibile, perché senza la capacità di creare empatia con parti del mondo e sistemi culturali diversi e lontani, la cooperazione rischierà sempre di oscillare fra carità, a volte pelosa e materia per idealisti talvolta disadattati, perdendo le grandi opportunità che invece possono nascere dall'incontro e scambio di culture.

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