1.4.11

La paura delle moltitudini

Laura Boldrini ancora una volta ci ricorda l'importanza delle parole; è un tema che mi è particolarmente caro.

Ma questa volta vorrei soffermarmi su un'altro tema citato spesso in questi giorni: il tema della paura e del suo uso, perché se è corretto e giusto denunciarne l'uso strumentale fatto dalla politica, magari ricordando altri tempi ed altre solidarietà, non è sufficiente ad eliminarlo, ne è sufficiente fare appello alla tradizione dei sentimenti religiosi dell'accoglienza. Quei sentimenti bene espressi nel passo evangelico "Ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35), ma presente anche nell'Islam e nell'Ebraismo, dove il dovere del rispetto per l'ospite viene sottolineato con forza. Ad esempio c'è un Hadith di Maometto che dice “Nella casa dove non entrano gli ospiti non entrano gli angeli”. Lo stesso concetto è presente anche nella Bibbia Ebrei 13.2 "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo".

La domanda infatti è perché nonostante la diffusione di queste religioni rimane la paura dello straniero?

Ma forse la questione è proprio qua: i precetti religiosi spesso promuovono comportamenti scomodi, magari considerati socialmente e moralmente commendevoli ma non sempre facilmente rispettabili, e di qui la necessità del precetto.

Il problema è che la paura, come altri sentimenti, è stata da sempre una necessità della specie; un sentimento indispensabile alla sopravvivenza e che sopratutto organizza i nostri comportamenti senza passare per processi razionali troppo articolati.

Per intendersi, di fronte alla percezione di un pericolo noi reagiamo istintivamente, senza chiederci se il pericolo sia reale o solo immaginario, perché la rapidità della reazione è indispensabile per sopravvivere.

Ma quello che appartiene alla sfera del'istinto e delle emozioni è assai poco organizzabile razionalmente.

Ed arriviamo alla paura dello straniero: proviamo ad immaginarci di camminare per il centro della città e di trovarsi ad un tratto in mezzo ad una folla vestita in modo completamente diverso che magari avanza di corsa e con fare che percepiamo come minaccioso: il nostro primo istinto è quello di metterci sulla difensiva, prima ancora di verificare se le minaccie siano vere e rivolte a noi, ci mettiamo sulla difensiva perché niente sappiamo di quel gruppo.

Perché è un gruppo: e qui abbiamo il secondo aspetto: i numeri: il nostro istinto ci porta sempre a prepararsi al rischio peggiore, e il numero conta: uno sconosciuto solo non lo percepiamo quasi mai come minaccia, forse perché pensiamo sia affrontabile, una moltitudine no. Il problema forse non è accogliere lo straniero, ma gli stranieri.

Non credo sia molto utile discettare se la paura della moltitudine sconosciuta sia giusta o meno. E' un sentimento presente in ognuno di noi e con cui dobbiamo farci i conti.

Cosa è invece possibile e utile fare:
intanto trasformare le moltitudini in persone, perché se invece di marocchini, libici o africani parlassimo di Ahmed, Sennait, Efrem e Aisha avremmo anche una diversa percezione dell'insieme.

La seconda questione è ricordare pervicacemente come ognuna di quelle persone accomunate dal barcone, è un individuo con una sua storia e le sue motivazione che lo hanno portato da noi, ed ognuno di quegli individui ha diritto di essere giudicato per quella storia e quelle motivazioni e non per un timbro messo da una legge o dalle nostre paure. Ha questo diritto perché lo vogliamo anche per noi. Perché anche noi vogliamo e pretendiamo di essere giudicati individualmente per quello che siamo e facciamo e non perché siamo italiani.

la terza questione è svelare il meccanismo. E svelare significa ricordare quanto di scientifico ci possa essere nell'uso della paura.

Un esempio: prima dell'11 settembre 2001 l'attentato terroristico più pesante subito dagli USA sul proprio territorio fu il massacro di Oklahoma City del 19 Aprile del 1995, un attacco che uccise 168 persone ferendone oltre 400. Il responsabile dell'attentato Timothy McVeigh era militante di un movimento paramilitare della destra USA che nella sua fase di massima espansione è arrivato ad avere negli USA oltre 20,000 militanti.
Eppure i riflessi di quell'attentato sulla vita politica statunitense non sono assolutamente comparabili con quelli dell'attentato dell'11 Settembre, e sopratutto nell'opinione pubblica la paura per le gesta della destra non è raffrontabile a quella che provoca Al Quaida, una organizzazione che a detta degli osservatori conta oggi un numero di effettivi in tutto il mondo stimabile in poche migliaia, con oramai pochissimi combattenti in Afganisthan.

Eppure è stata la minaccia di Al Quaida e non quello della destra militante statunitense a venire agitata in ogni occasione ed a tutte le latitudini. Questo perché negli Stati Uniti Al Quaida era il cattivo perfetto, non come il razzista bianco della casa accanto, con cui magari si condivideva qualche bevuta ai match di baseball, e la cui passione per le armi consideravamo innoqua, salvo sorprendersi quando iniziava il tirasegno sui passanti.
Al Quaida: una realtà esterna, lontana e sconosciuta insomma il cattivo che sostituiva al meglio i cattivi precedenti ed oramai in disarmo del campo comunista, e cui poter addebitare i fallimenti della propria politica negli altri campi, una politica che ha reso negli anni il cittadino Usa medio più povero, con meno speranze per il futuro.

E il caso vuole che anche da noi i cittadini medi sono divenuti negli anni più poveri e con meno speranze per il futuro.

Non sarà un caso che hanno anche più paura delle moltitudini sconosciute?

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