26.2.11

Profughi, rifugiati e lavoratori migranti

"Prepariamoci all'invasione" questo il sunto di una parte degli articoli apparsi sulla stampa in questi giorni di insurrezione in Libia. E ovviamente il grido di allarme viene supportato da stime numeriche ed aggettivi impressionanti: "un milione e mezzo", "centinaia di migliaia", "Esodo biblico" etc. etc.


Giustamente il presidente Napolitano fa appello alla calma, ma conoscendo la propensione del mondo politico italiano ad usare i temi internazionali per le beghe locali, quando non per ribadire un machismo da     Rambo tirati su a polenta taragna, c'è da ritenere che dopo il rituale convenire con "le alte parole del capo dello stato", riprenderà il balletto di cifre, stime ed approssimazioni sul tema. Tutto secondo il più genuino carattere italiano.


Le approssimazioni iniziano sin dal momento delle definizioni: per un lettore di giornali o spettatore televisivo italiano, migrante e profugo sono sinonimi tesi a definire la persona proveniente dall'estero per motivi diversi dal turismo, e magari destinato a togliere il lavoro agli italiani.


Il fatto è che non sono sinonimi: nel primo caso si tratta di soggetti la cui migrazione è volontaria e motivata da un legittimo desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, nel secondo caso invece si hanno persone che per cause di forza maggiore non possono più risiedere nel luogo dove sono nati e cresciuti. I primi sono tutelati dalla convenzione sui migranti, i secondi dalla convenzione sui rifugiati. Certo il confine non è sempre facile da tracciare: carestie o povertà endemica di un paese sono condizioni che portano a migrazioni rientranti nel primo caso ma che hanno anche molti degli aspetti tutelati dalla seconda.


La seconda approssimazione nasce nel momento in cui si ipotizza un parallelismo fra potenziale di creazione di profughi conseguente agli eventi libici, ed i flussi sull'Italia degli stessi.


Cominciamo intanto dalle tendenze nei flussi: in tutta l'Africa le guerre e le turbolenze non hanno mai creato flussi di massa verso l'Europa e men che meno verso l'Italia. Tanto per essere precisi: secondo i dati dell'agenzia dell'Onu per i rifugiati (UNHCR) nel 2009 in Italia c'erano 60,000 persone con lo status di profugo o assimilabile. Nello stesso anno in Sudan erano quasi 1,500,000, e nel Chad 500,000. Molti meno in Egitto (100,000), ma sempre in quantità superiore all'Italia. Ed è abbastanza logico: solo una percentuale bassa di persone è disponibile a cambiare paese, la maggioranza preferisce stare nel proprio, e nel caso dovesse abbandonarlo, cerca di rimanere il più vicino possibile alla propria casa.

Insomma è più prevedibile che in caso di guerra civile conclamata una parte dei sei milioni di libici interessati dalla guerra si muova all'interno del paese o verso i paesi vicini, piuttosto che imbarcarsi per l'Italia (fra l'altro non serve avere una laurea in matematica per capire quante imbarcazioni sarebbero necessarie per portare un milione di persone da una sponda all'altra....). Ed infatti il "European Council on Foreign Relations" parlando dei possibili arrivi di migranti dalla Libia li stima in 70,000 l'anno, cifra certo più alta dei 7,300 a cui si era ridotto il flusso in questi anni, ma sempre lontano dalle cifre sparate dai giornali.
 
Ma gli osservatori ci dicono che un esodo è già iniziato, ed è quello dei lavoratori stranieri che in Libia costituivano una quota significativa della popolazione (solo l'Egitto ne aveva 1,000,000). Ma cosa ci fa pensare che mentre i serbi stanno rientrando in Serbia, gli italiani in Italia, gli egiziani invece preferiscano proseguire verso l'Europa anziché tornarsene a casa? Forse solo la superbia occidentale.


Ed infatti sappiamo che tutti i paesi del nord Africa da cui provenivano i lavoratori stranieri in Libia stanno già fronteggiando l'emergenza del rientro, che si somma, per loro si, all'emergenza per i profughi libici dalla Libia.


Sarà bene guardare da quella parte quando urliamo alla emergenza profughi, smettendo di contemplarci l'ombelico.

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