23.3.11

Dopo i bombardamenti

La mia opinione:
e' un nostro diritto criticare le modalità con cui è avvenuto l'intervento, così come tutte le inadempienze ed errori precedenti a questo, ma questo non rende meno pressante la domanda che è: di fronte ad un potenziale pericolo per un pezzo di popolazione di un paese, ed in presenza di una richiesta esplicita da parte di quel pezzo di popolazione noi cosa dovremmo fare?

a) dire che non possiamo intervenire mai, perché ci sarà da sparare
b) dire che dobbiamo stare a guardare perché sono affari interni
c) valutare le circostanze e al caso intervenire

Sono tutte e tre posizioni che possono avere motivazioni altissime sul piano morale, come invece ragioni molto meno commendevoli, ma mi pare che il punto sia qua: dire dove ci posizioniamo.

Le accuse di doppiopesismo, di interessi nascosti, di megalomania, così come le considerazioni sulla simpatia od antipatia che nutriamo per le potenziali vittime e per gli alleati potenziali sono tutte parte di un armamentario di discussione che possiamo adoperare per sostenere la nostra tesi, ma la domanda principale è cosa fare con i carri armati a pochi kilometri dalla città.

Perché è la domanda che si sono posti in altri momenti i pacifisti durante l'assedio di Saraievo, o che ponevano ai loro quartier generale le truppe ONU di stanza in Rwanda di fronte ad armi diverse ma non meno letali.

Poi c'è il dopo, ed il dopo dipende moltissimo dal prima, da quello che non è stato fatto prima del conflitto, da come è stato condotto il conflitto, e da cosa faranno tutte le parti quando il conflitto terminerà, ma dipende sopratutto dalla capacità che avranno le popolazioni di mettersi ad un tavolo per concordare le modalità della convivenza.

Perché questo è certo, a meno di un esito dove una parte annienta l'altra, obbiettivo peraltro esplicito nei proclami di Gaddafi, i filo Gaddafi e gli anti Gaddafi ad un certo punto dovranno trovarsi ad un tavolo.

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