12.4.11

I mocassini degli altri

Qualche giorno fa i giornali italiani riportavano l'ennesima cronaca di un episodio di razzismo ad un evento sportivo.

Questa volta era stato un gruppetto sparuto di spettatori di una partita di pallacanestro ad aver usato il riferimento al colore della pelle come mezzo per offendere una giocatrice della squadra avversaria.

Non è la prima volta ne sarà l'ultima, e del resto nel mondo dello sport, con buona pace degli ideali di lealtà e correttezza, quella di fare il possibile per innervosire l'avversario è una delle pratiche ricorrenti sugli spalti ed ahimè anche sul campo.

E non c'è da stupirsi se il colore della pelle viene immediatamente preso come pretesto, sopratutto in tempi in cui ossessioni identitarie e timori per lo straniero percorrono in lungo e largo la penisola.

Solo che non stiamo parlando di stranieri, stipendiati, che come ebbe a dire una volta Ruud Gullit, sono tollerati perché tanto se ne andranno: Abiola Wabara, l'atleta insultata di cui sopra è cittadina italiana, come sono cittadini italiani Mario Balotelli e Stefano Okaka, ed i campi sportivi d'Italia sono sempre più caratterizzati da atleti italiani a tutti gli effetti anche se con genitori provenienti da altri paesi.

Ed è l'insieme della società ad essere come quei campetti, e lo sarà sempre di più. Perché è quello che accade nei paesi industrializzati che nel corso degli anni hanno importato mandopera.
Un recente studio dell'ufficio statistico USA ha calcolato che il 93% della crescita della popolazione degli Stati Uniti è dovuta alla crescita nei gruppi considerati "minoranza" (i censimenti USA rilevano anche il gruppo di appartenenza e da qualche anno permettono anche di indicarne più d'uno). Addirittura si prevede che fra non troppi anni la popolazione bianca "anglo-sassone" sarà superata da quella proveniente dagli altri gruppi (ispanica, afroamericana etc.). Insomma l'America della enorme middleclass bianca, del baseball e della torta di mele cambia progressivamente in qualche cosa d'altro.

Non è molto difficile prevedere qualche cosa di simile anche dalle nostre parti, e del resto basta visitare un reparto maternità per accorgersene, e non perché gli immigrati fanno più figli, magari per conquistare qualche agevolazione, come ogni tanto sussurra la propaganda razzista, ma molto più semplicemente perché una popolazione giovane mette su famiglia non appena le condizioni fanno sperare in una qualche stabilità, e la maggior parte degli immigrati arrivati da noi sono relativamente giovani.

Ma torniamo ai campetti sportivi...E' certamente facile usare un tratto somatico per offendere una persona, e magari qualcuno di quegli imbecilli pure penserà che in fondo non stanno ammazzando nessuno.

Forse avremmo avuto bisogno anche da noi di persone come Jane Elliot, una insegnate Usa che all'indomani dell'assassinio di Martin Luther King anziché fare una lezione astratta sul razzismo fece un esercizio pratico sulla discriminazione con i suoi ragazzi.

Era probabilmente troppo difficile spiegare loro, che vivevano in una piccola comunità bianca dello Iowa, cosa volesse dire avere la pelle nera: ed allora disse semplicemente che era provato che le persone con gli occhi scuri se la cavavano meglio di quelli con gli occhi azzurri, salvo poi correggersi il giorno dopo dicendo che si era sbagliata e che erano i secondi a cavarsela meglio: i risultati furono piuttosto sconvolgenti, e quando al terzo giorno ai ragazzi fu detto che non era vero ma che avevano tutti potuto capire cosa significava essere discriminati per un tratto somatico, questi furono non solo sollevati ma anche grati per l'esperienza fatta.

Un documentario (in inglese) sulla ripetizione dell'esercizio fatta qualche tempo dopo si trova qui.

Negli anni per giustificare chi criticava il suo approccio Jane Eliot citava il vecchio detto sioux in cui si fa appello al grande spirito perché preservi dal giudicare un uomo prima di aver camminato nei suoi mocassini.

Sono in tanti quelli che oggi dovrebbere provare a camminare nei mocassini di Abiola Wabara, Balotelli, Okaka e dei tanti altri giovani italiani che per passione o per lavoro giocano negli impianti sportivi italiani, ma sono abbastanza certo che li troverebbero molto scomodi.

7.4.11

Il nostro cortile

"Una crisi come quella libica ma dimenticata" scrive il Fatto Quotidiano, ed in effetti è così: scontri feroci ma poca attenzione alle nostre latitudini. E l'esistenza di un conflitto che non risparmia i civili non è l'unica cosa che accomuna le due guerre, in ambedue i conflitti è infatti ben presente la Francia a sostegno di una delle parti. Ed in ambedue i casi l'azione avviene con un qualche avvallo delle Nazioni Unite.


La nostra indifferenza viene spesso portata a riprova del cinismo occidentale, più interessato a petrolio e sicurezza che ai diritti umani a latitudini lontane.


E' una osservazione giusta, e tuttavia temo sia estendibile ben oltre ai soliti colpevoli. Come non notare il fatto che la frase "e la costa d'Avorio" sia usata appunto come espediente retorico e non come programma di azione e mobilitazione?

Insomma gli organizzatori delle manifestazioni del 2 aprile lo hanno fatto per protesta contro la guerra in Libia pur ricordando di essere  contro la guerra tout court.


Certo si sa che gli obiettivi astratti non funzionano, ma allora perché non sfilare per Libia e Costa d'Avorio?


Una risposta immediata potrebbe essere che nella guerra libica ci siamo anche noi, mentre in Costa d'Avorio no. Ma allora non saranno le cose un po' più complicate ed intrecciate, percui accanto ai nostri giudizi etici e di principio intervengono anche elementi che rimandano direttamente alla nostra quotidianità?


Temo insomma che ancora una volta si dimostri la realtà del nostro paese, dove qualsiasi questione di politica internazionale viene rimodulata in chiave nazionale per riproporla già predigerita fra i pochi temi che da decenni sembrano interessarci, temi fra cui cito a caso le dinamiche fra maggioranza ed opposizione, le dinamiche fra opposizione radicale ed opposizione moderata, il ruolo della chiesa.


In questo quadro le persone che abitano il mondo di fuori fanno da comparse nella lunga recita che riproponiamo da anni. Comparse davvero, in quanto appaiono d'improvviso quando scoppia la crisi, accendono le nostre passioni ed i nostri schieramenti, per poi tornare nuovamente nell'oblio.


Fanno da comparse perché se dovessero entrare nella nostra vita da protagoniste rischieremmo di scoprire che in ogni conflitto esistono questioni su cui dobbiamo pronunciarci, momenti in cui dobbiamo dire da che parte stiamo, scelte che dobbiamo fare, persone cui dobbiamo delle risposte e spiegazioni per quello che abbiamo fatto o non fatto.


Troppo più facile proseguire sapendo ben poco del mondo e delle persone che lo abitano e se costretti a sapere, affannosamente adattare le novità al nostro cortile.

1.4.11

La paura delle moltitudini

Laura Boldrini ancora una volta ci ricorda l'importanza delle parole; è un tema che mi è particolarmente caro.

Ma questa volta vorrei soffermarmi su un'altro tema citato spesso in questi giorni: il tema della paura e del suo uso, perché se è corretto e giusto denunciarne l'uso strumentale fatto dalla politica, magari ricordando altri tempi ed altre solidarietà, non è sufficiente ad eliminarlo, ne è sufficiente fare appello alla tradizione dei sentimenti religiosi dell'accoglienza. Quei sentimenti bene espressi nel passo evangelico "Ero straniero e mi avete accolto" (Mt 25,35), ma presente anche nell'Islam e nell'Ebraismo, dove il dovere del rispetto per l'ospite viene sottolineato con forza. Ad esempio c'è un Hadith di Maometto che dice “Nella casa dove non entrano gli ospiti non entrano gli angeli”. Lo stesso concetto è presente anche nella Bibbia Ebrei 13.2 "Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo".

La domanda infatti è perché nonostante la diffusione di queste religioni rimane la paura dello straniero?

Ma forse la questione è proprio qua: i precetti religiosi spesso promuovono comportamenti scomodi, magari considerati socialmente e moralmente commendevoli ma non sempre facilmente rispettabili, e di qui la necessità del precetto.

Il problema è che la paura, come altri sentimenti, è stata da sempre una necessità della specie; un sentimento indispensabile alla sopravvivenza e che sopratutto organizza i nostri comportamenti senza passare per processi razionali troppo articolati.

Per intendersi, di fronte alla percezione di un pericolo noi reagiamo istintivamente, senza chiederci se il pericolo sia reale o solo immaginario, perché la rapidità della reazione è indispensabile per sopravvivere.

Ma quello che appartiene alla sfera del'istinto e delle emozioni è assai poco organizzabile razionalmente.

Ed arriviamo alla paura dello straniero: proviamo ad immaginarci di camminare per il centro della città e di trovarsi ad un tratto in mezzo ad una folla vestita in modo completamente diverso che magari avanza di corsa e con fare che percepiamo come minaccioso: il nostro primo istinto è quello di metterci sulla difensiva, prima ancora di verificare se le minaccie siano vere e rivolte a noi, ci mettiamo sulla difensiva perché niente sappiamo di quel gruppo.

Perché è un gruppo: e qui abbiamo il secondo aspetto: i numeri: il nostro istinto ci porta sempre a prepararsi al rischio peggiore, e il numero conta: uno sconosciuto solo non lo percepiamo quasi mai come minaccia, forse perché pensiamo sia affrontabile, una moltitudine no. Il problema forse non è accogliere lo straniero, ma gli stranieri.

Non credo sia molto utile discettare se la paura della moltitudine sconosciuta sia giusta o meno. E' un sentimento presente in ognuno di noi e con cui dobbiamo farci i conti.

Cosa è invece possibile e utile fare:
intanto trasformare le moltitudini in persone, perché se invece di marocchini, libici o africani parlassimo di Ahmed, Sennait, Efrem e Aisha avremmo anche una diversa percezione dell'insieme.

La seconda questione è ricordare pervicacemente come ognuna di quelle persone accomunate dal barcone, è un individuo con una sua storia e le sue motivazione che lo hanno portato da noi, ed ognuno di quegli individui ha diritto di essere giudicato per quella storia e quelle motivazioni e non per un timbro messo da una legge o dalle nostre paure. Ha questo diritto perché lo vogliamo anche per noi. Perché anche noi vogliamo e pretendiamo di essere giudicati individualmente per quello che siamo e facciamo e non perché siamo italiani.

la terza questione è svelare il meccanismo. E svelare significa ricordare quanto di scientifico ci possa essere nell'uso della paura.

Un esempio: prima dell'11 settembre 2001 l'attentato terroristico più pesante subito dagli USA sul proprio territorio fu il massacro di Oklahoma City del 19 Aprile del 1995, un attacco che uccise 168 persone ferendone oltre 400. Il responsabile dell'attentato Timothy McVeigh era militante di un movimento paramilitare della destra USA che nella sua fase di massima espansione è arrivato ad avere negli USA oltre 20,000 militanti.
Eppure i riflessi di quell'attentato sulla vita politica statunitense non sono assolutamente comparabili con quelli dell'attentato dell'11 Settembre, e sopratutto nell'opinione pubblica la paura per le gesta della destra non è raffrontabile a quella che provoca Al Quaida, una organizzazione che a detta degli osservatori conta oggi un numero di effettivi in tutto il mondo stimabile in poche migliaia, con oramai pochissimi combattenti in Afganisthan.

Eppure è stata la minaccia di Al Quaida e non quello della destra militante statunitense a venire agitata in ogni occasione ed a tutte le latitudini. Questo perché negli Stati Uniti Al Quaida era il cattivo perfetto, non come il razzista bianco della casa accanto, con cui magari si condivideva qualche bevuta ai match di baseball, e la cui passione per le armi consideravamo innoqua, salvo sorprendersi quando iniziava il tirasegno sui passanti.
Al Quaida: una realtà esterna, lontana e sconosciuta insomma il cattivo che sostituiva al meglio i cattivi precedenti ed oramai in disarmo del campo comunista, e cui poter addebitare i fallimenti della propria politica negli altri campi, una politica che ha reso negli anni il cittadino Usa medio più povero, con meno speranze per il futuro.

E il caso vuole che anche da noi i cittadini medi sono divenuti negli anni più poveri e con meno speranze per il futuro.

Non sarà un caso che hanno anche più paura delle moltitudini sconosciute?

26.3.11

e la costa d'Avorio?

Francesca mi chiede: "ma in questi giorni in cui si discute della Libia, nessuno che pensa alla Costa d'Avorio, con un presidente sconfitto alla urne che non se ne va e sta masscrando i sostenitori del vincitore?". La sua domanda è mossa di sincera curiosità, e del resto non è la prima a notare l'assenza di altri massacri contemporanei dalle prime pagine dei giornali troppo impegnati a discutere dei dettagli della missione occidentale in Libia.

Ed in effetti se la risposta alle crisi mondiali dovesse essere sempre quella dei bombardamenti ce ne sarebbe di lavoro per i piloti d'aereo. Fortunatamente non è così, e tuttavia quella domanda spesso va in coppia con una seconda affermazione, ovvero che la diplomazia avrebbe dovuto lavorare per scongiurare la guerra civile in Libia.

E qui va fatta una considerazione: è esattamente la strada tentata in Costa d'Avorio, dove da 4 mesi organizzazioni sovranazionali, potenze regionali e grandi potenze stanno cercando di trovare la strada per uscire dal rebus del paese con due presidenti.   Certo ci sono molti problemi, il primo dei quali la differenza di opinioni fra i vari mediatori, ma è certo che qualche sforzo è stato fatto. E tuttavia questo non è sufficente.

Divergenze di vedute fra i negoziatori? incapacità? carenza od inefficacia negli strumenti di coercizione?
Non ho risposte, o almeno, non credo che ci sia una spiegazione sola. Ma mi pare evidente che questo dimostri come i percorsi negoziali siano assai impervi e non necessariamente in grado di bloccare i massacri.

Ma sopratutto è evidente quanto poco si sappia di quello che avviene fuori dal nostro paese, sopratutto quando avviene in un paese che non è collegato al nostro con un gasodotto.

Ed allora che si fa? Be intanto possiamo provare a sapere di più, e magari scoprire che già la decisione di stare sempre dalla parte di chi chiede più partecipazione alla vita politica, anziché scegliere sulla base della simpatia dei contendenti e dei loro alleati, sia una operazione di per se straordinaria e forse nel lungo periodo disarmante.

  

Definizioni

Scampoli di conversazione mattutina: "anche noi avremo da accogliere un gruppo di profughi della Libia...", "ma sarà meglio metterli tutti assieme o spargerli in diverse strutture...", "Quanti saranno?" "al mercato c'era chi ne parlava preoccupato...".

Il problema è che nel nostro linguaggio tutto si confonde, facendoci sfuggire la rilevanza delle differenze, e che differenze. Quelle differenze che ci dicono che un profugo non è un migrante, e che un migrante non è un esule politico.
Quelle differenze che nel nostro tempo e nel nostro paese vengono frettolosamente nascoste dalla definizione di "clandestino", che troppo spesso viene allegramente appioppata a chi, di carnagione scura od olivastra, non è arrivato da noi passando dal check in di un aereoporto.

Per chiarezza: "profugo" è uno che per qualche motivo, naturale o conseguente ad atti umani, lascia la sua residenza. Sono gli sfollati della terra, persone che non attendono altro che le condizioni consentano il rientro a casa.

Erano profughi il milione di Eritrei che nel maggio del 2000 abbandonarono le zone vicine alla frontiera con l'Etiopia per rifugiarsi lontano dal fronte del conflitto fra Eritrea e Etiopia.

Nel settembre del 2000, poco dopo il cessate il fuoco già i primi campi si svuotarono: c'era il raccolto da fare e chi potè lasciò la tenda e se ne tornò a casa.

Nel maggio del 2001 si svuotarono anche quasi tutti gli altri campi, con decine di migliaia di persone che rientrarono nei loro villaggi, giusto in tempo per pensare alla nuova stagione della semina, nella speranza che gli aratri non si trovassero ad urtare una delle tante mine lasciate dal conflitto. Quasi tutti tornarono a casa, salvo qualche decina di migliaia di persone ancora oggi trattenuti dal fatto che le loro terre sono rimaste in una zona occupata dall'altro esercito, pegno di un processo di pace mai concluso.

Questi i profughi, e saranno probabilmente così anche molti di quelli che capiteranno da noi dalla Libia, sempre in attesa che le condizioni consentano loro di rientrare.

Poi ci sono i migranti: coloro che migrano per costruirsi un futuro migliore. Migranti regolari quando la legge lo consente, irregolari quando le norme sono troppo ristrette.
Ricercati e respinti sono però altra cosa dai profughi: vorrebbero tornare vincitori nel loro paese, ma spesso si accontentano di poter ostentare nel loro villaggio un benessere di oro placcato le poche volte che i loro risparmi gli consentono di pagarsi il biglietto. Un benessere pagato con turni massacranti nei lavori più umili, e vedendo i propri figli crescere parlando un'altra lingua, con altri miti e studiando un'altra storia.

Ed infine i rifugiati politici. Coloro che vorrebbero rientrare nel loro paese ma non possono, perché il paese che sognano è diverso da quello reale, e quello reale ritiene che l'unico posto per i sognatori sia la galera o la forca.

Nel tempo gli stati si sono dati regole e comportamenti per affrontare i problemi e le necessità poste da profughi, migranti e rifugiati politici. Alcune di queste norme funzionano bene, altre meno, quello che è certo è che di tutti i comportamenti possibili quello meno efficace e più ingiusto è quella che considera queste condizioni come pericolosa clandestinità.

E' quello che dovremmo ricordare ogni volta che sentiamo qualcuno preoccuparsi per gli sfollati che arriveranno.







23.3.11

Dopo i bombardamenti

La mia opinione:
e' un nostro diritto criticare le modalità con cui è avvenuto l'intervento, così come tutte le inadempienze ed errori precedenti a questo, ma questo non rende meno pressante la domanda che è: di fronte ad un potenziale pericolo per un pezzo di popolazione di un paese, ed in presenza di una richiesta esplicita da parte di quel pezzo di popolazione noi cosa dovremmo fare?

a) dire che non possiamo intervenire mai, perché ci sarà da sparare
b) dire che dobbiamo stare a guardare perché sono affari interni
c) valutare le circostanze e al caso intervenire

Sono tutte e tre posizioni che possono avere motivazioni altissime sul piano morale, come invece ragioni molto meno commendevoli, ma mi pare che il punto sia qua: dire dove ci posizioniamo.

Le accuse di doppiopesismo, di interessi nascosti, di megalomania, così come le considerazioni sulla simpatia od antipatia che nutriamo per le potenziali vittime e per gli alleati potenziali sono tutte parte di un armamentario di discussione che possiamo adoperare per sostenere la nostra tesi, ma la domanda principale è cosa fare con i carri armati a pochi kilometri dalla città.

Perché è la domanda che si sono posti in altri momenti i pacifisti durante l'assedio di Saraievo, o che ponevano ai loro quartier generale le truppe ONU di stanza in Rwanda di fronte ad armi diverse ma non meno letali.

Poi c'è il dopo, ed il dopo dipende moltissimo dal prima, da quello che non è stato fatto prima del conflitto, da come è stato condotto il conflitto, e da cosa faranno tutte le parti quando il conflitto terminerà, ma dipende sopratutto dalla capacità che avranno le popolazioni di mettersi ad un tavolo per concordare le modalità della convivenza.

Perché questo è certo, a meno di un esito dove una parte annienta l'altra, obbiettivo peraltro esplicito nei proclami di Gaddafi, i filo Gaddafi e gli anti Gaddafi ad un certo punto dovranno trovarsi ad un tavolo.

22.3.11

Dei due pesi e delle due misure

Quella del doppio standard è una classica accusa rivolta alle grandi potenze ogni volta che scoppia una guerra o si assiste ad interventi armati in questa o quell'altra parte del mondo.

In sostanza si dice: perché intervenire in quel paese giustificando l'iniziativa con la necessità di difendere i diritti umani e non farlo da qualche altra parte dove gli stessi diritti sono messi in discussione? Ovviamente il corollario è che dall'altra parte non si interviene perché il bullo di turno è sulla lista degli amici .

Un esempio recente è quello che mette a confronto il bombardamento della Libia a difesa degli insorti di Bengasi con il silenzio sull'intervento pesante dell'Arabia Saudita in Bahrain, in difesa dei regnanti e contro i dimostranti che chiedevano più democrazia.

L'accusa ha una solida base e giustamente sottolinea come nella politica a prevalere non sono i diritti, spesso rappresentati come ideale cui tutti i popoli tenderebbero se non fossero bloccati dal despota di turno, ma i ben più corposi interessi materiali. E questo non vale solo nella scelta delle priorità dettate dai potenti di turno, ma anche nell'approccio che le persone comuni hanno ai temi internazionali, dove appunto la crisi libica ha una sua rilevanza per i riflessi che percepiamo avrà sulla nostra economia, mentre le altre crisi del continente africano sono sentite come problema lontano, da delegare a missionari e ong.


Verrebbe poi da aggiungere l'amara considerazione che i diritti pesano più o meno in relazione alla potenza degli eserciti coinvolti e della posizione del bullo e dei suoi amici nella assemblea delle Nazioni Unite.

Ma temo che questa discussione non porti troppo lontano nella soluzione dei problemi: può aiutare a sentirsi dalla parte giusta, dalla parte cioè di quelli che difendono sempre il debole dall'oppressore, posizione moralmente alta e anche gratificante, sopratutto se ci sono stelle e le strisce che ci aiutano a ricordarci antiche battaglie, ma rimane irrisolta la questione di fondo: cosa fare quando ci si trova a poche ore dalla battaglia finale?

E' oggettivamente impossibile scegliere fra il massacro buono e quello cattivo, fra il bombardamento efferato e quello "umanitario". Fra il rimorso per aver sbagliato a non fare e quello di aver fatto ed aver sbagliato, e tuttavia occorre farlo, perché la neutralità non è sempre una virtù, sopratutto quando è indifferenza.

E non aiutano le accuse di doppi standard, perché non si tratta oggi di valutare la moralità astratta dell'intervento, ma stabilire se sia necessario o no, se siano praticabili oggi altre strade oppure no. E per questa analisi non serve dire che si sarebbe potuto fare l'altro ieri, perché ciò che non è stato fatto o che è stato fatto male rientrerà nella valutazione che dovremo dare domani dei nostri leader, ma oggi e adesso e in quel contesto specifico la domanda è cosa fare.

Non servono le accuse dei doppi standard perché il tema di oggi non è decidere se Usa, Russia, Francia o Cina siano buone o cattive, ma come fare in modo che in questa o quella crisi si blocchi l'escalation verso il peggio, sapendo che i corposi interessi in campo avranno un loro peso.

Insomma la nostra abilità non è data dalla capacità di svelare quello che tutti sanno, ovvero che il principale motore della politica internazionale è l'interesse, ma capire come fare a rallentare quel motore quando alimenta la repressione, e favorirlo quando la blocca.

A Bengasi, come a Manama come a Sanaa