26.3.11

e la costa d'Avorio?

Francesca mi chiede: "ma in questi giorni in cui si discute della Libia, nessuno che pensa alla Costa d'Avorio, con un presidente sconfitto alla urne che non se ne va e sta masscrando i sostenitori del vincitore?". La sua domanda è mossa di sincera curiosità, e del resto non è la prima a notare l'assenza di altri massacri contemporanei dalle prime pagine dei giornali troppo impegnati a discutere dei dettagli della missione occidentale in Libia.

Ed in effetti se la risposta alle crisi mondiali dovesse essere sempre quella dei bombardamenti ce ne sarebbe di lavoro per i piloti d'aereo. Fortunatamente non è così, e tuttavia quella domanda spesso va in coppia con una seconda affermazione, ovvero che la diplomazia avrebbe dovuto lavorare per scongiurare la guerra civile in Libia.

E qui va fatta una considerazione: è esattamente la strada tentata in Costa d'Avorio, dove da 4 mesi organizzazioni sovranazionali, potenze regionali e grandi potenze stanno cercando di trovare la strada per uscire dal rebus del paese con due presidenti.   Certo ci sono molti problemi, il primo dei quali la differenza di opinioni fra i vari mediatori, ma è certo che qualche sforzo è stato fatto. E tuttavia questo non è sufficente.

Divergenze di vedute fra i negoziatori? incapacità? carenza od inefficacia negli strumenti di coercizione?
Non ho risposte, o almeno, non credo che ci sia una spiegazione sola. Ma mi pare evidente che questo dimostri come i percorsi negoziali siano assai impervi e non necessariamente in grado di bloccare i massacri.

Ma sopratutto è evidente quanto poco si sappia di quello che avviene fuori dal nostro paese, sopratutto quando avviene in un paese che non è collegato al nostro con un gasodotto.

Ed allora che si fa? Be intanto possiamo provare a sapere di più, e magari scoprire che già la decisione di stare sempre dalla parte di chi chiede più partecipazione alla vita politica, anziché scegliere sulla base della simpatia dei contendenti e dei loro alleati, sia una operazione di per se straordinaria e forse nel lungo periodo disarmante.

  

Definizioni

Scampoli di conversazione mattutina: "anche noi avremo da accogliere un gruppo di profughi della Libia...", "ma sarà meglio metterli tutti assieme o spargerli in diverse strutture...", "Quanti saranno?" "al mercato c'era chi ne parlava preoccupato...".

Il problema è che nel nostro linguaggio tutto si confonde, facendoci sfuggire la rilevanza delle differenze, e che differenze. Quelle differenze che ci dicono che un profugo non è un migrante, e che un migrante non è un esule politico.
Quelle differenze che nel nostro tempo e nel nostro paese vengono frettolosamente nascoste dalla definizione di "clandestino", che troppo spesso viene allegramente appioppata a chi, di carnagione scura od olivastra, non è arrivato da noi passando dal check in di un aereoporto.

Per chiarezza: "profugo" è uno che per qualche motivo, naturale o conseguente ad atti umani, lascia la sua residenza. Sono gli sfollati della terra, persone che non attendono altro che le condizioni consentano il rientro a casa.

Erano profughi il milione di Eritrei che nel maggio del 2000 abbandonarono le zone vicine alla frontiera con l'Etiopia per rifugiarsi lontano dal fronte del conflitto fra Eritrea e Etiopia.

Nel settembre del 2000, poco dopo il cessate il fuoco già i primi campi si svuotarono: c'era il raccolto da fare e chi potè lasciò la tenda e se ne tornò a casa.

Nel maggio del 2001 si svuotarono anche quasi tutti gli altri campi, con decine di migliaia di persone che rientrarono nei loro villaggi, giusto in tempo per pensare alla nuova stagione della semina, nella speranza che gli aratri non si trovassero ad urtare una delle tante mine lasciate dal conflitto. Quasi tutti tornarono a casa, salvo qualche decina di migliaia di persone ancora oggi trattenuti dal fatto che le loro terre sono rimaste in una zona occupata dall'altro esercito, pegno di un processo di pace mai concluso.

Questi i profughi, e saranno probabilmente così anche molti di quelli che capiteranno da noi dalla Libia, sempre in attesa che le condizioni consentano loro di rientrare.

Poi ci sono i migranti: coloro che migrano per costruirsi un futuro migliore. Migranti regolari quando la legge lo consente, irregolari quando le norme sono troppo ristrette.
Ricercati e respinti sono però altra cosa dai profughi: vorrebbero tornare vincitori nel loro paese, ma spesso si accontentano di poter ostentare nel loro villaggio un benessere di oro placcato le poche volte che i loro risparmi gli consentono di pagarsi il biglietto. Un benessere pagato con turni massacranti nei lavori più umili, e vedendo i propri figli crescere parlando un'altra lingua, con altri miti e studiando un'altra storia.

Ed infine i rifugiati politici. Coloro che vorrebbero rientrare nel loro paese ma non possono, perché il paese che sognano è diverso da quello reale, e quello reale ritiene che l'unico posto per i sognatori sia la galera o la forca.

Nel tempo gli stati si sono dati regole e comportamenti per affrontare i problemi e le necessità poste da profughi, migranti e rifugiati politici. Alcune di queste norme funzionano bene, altre meno, quello che è certo è che di tutti i comportamenti possibili quello meno efficace e più ingiusto è quella che considera queste condizioni come pericolosa clandestinità.

E' quello che dovremmo ricordare ogni volta che sentiamo qualcuno preoccuparsi per gli sfollati che arriveranno.







23.3.11

Dopo i bombardamenti

La mia opinione:
e' un nostro diritto criticare le modalità con cui è avvenuto l'intervento, così come tutte le inadempienze ed errori precedenti a questo, ma questo non rende meno pressante la domanda che è: di fronte ad un potenziale pericolo per un pezzo di popolazione di un paese, ed in presenza di una richiesta esplicita da parte di quel pezzo di popolazione noi cosa dovremmo fare?

a) dire che non possiamo intervenire mai, perché ci sarà da sparare
b) dire che dobbiamo stare a guardare perché sono affari interni
c) valutare le circostanze e al caso intervenire

Sono tutte e tre posizioni che possono avere motivazioni altissime sul piano morale, come invece ragioni molto meno commendevoli, ma mi pare che il punto sia qua: dire dove ci posizioniamo.

Le accuse di doppiopesismo, di interessi nascosti, di megalomania, così come le considerazioni sulla simpatia od antipatia che nutriamo per le potenziali vittime e per gli alleati potenziali sono tutte parte di un armamentario di discussione che possiamo adoperare per sostenere la nostra tesi, ma la domanda principale è cosa fare con i carri armati a pochi kilometri dalla città.

Perché è la domanda che si sono posti in altri momenti i pacifisti durante l'assedio di Saraievo, o che ponevano ai loro quartier generale le truppe ONU di stanza in Rwanda di fronte ad armi diverse ma non meno letali.

Poi c'è il dopo, ed il dopo dipende moltissimo dal prima, da quello che non è stato fatto prima del conflitto, da come è stato condotto il conflitto, e da cosa faranno tutte le parti quando il conflitto terminerà, ma dipende sopratutto dalla capacità che avranno le popolazioni di mettersi ad un tavolo per concordare le modalità della convivenza.

Perché questo è certo, a meno di un esito dove una parte annienta l'altra, obbiettivo peraltro esplicito nei proclami di Gaddafi, i filo Gaddafi e gli anti Gaddafi ad un certo punto dovranno trovarsi ad un tavolo.

22.3.11

Dei due pesi e delle due misure

Quella del doppio standard è una classica accusa rivolta alle grandi potenze ogni volta che scoppia una guerra o si assiste ad interventi armati in questa o quell'altra parte del mondo.

In sostanza si dice: perché intervenire in quel paese giustificando l'iniziativa con la necessità di difendere i diritti umani e non farlo da qualche altra parte dove gli stessi diritti sono messi in discussione? Ovviamente il corollario è che dall'altra parte non si interviene perché il bullo di turno è sulla lista degli amici .

Un esempio recente è quello che mette a confronto il bombardamento della Libia a difesa degli insorti di Bengasi con il silenzio sull'intervento pesante dell'Arabia Saudita in Bahrain, in difesa dei regnanti e contro i dimostranti che chiedevano più democrazia.

L'accusa ha una solida base e giustamente sottolinea come nella politica a prevalere non sono i diritti, spesso rappresentati come ideale cui tutti i popoli tenderebbero se non fossero bloccati dal despota di turno, ma i ben più corposi interessi materiali. E questo non vale solo nella scelta delle priorità dettate dai potenti di turno, ma anche nell'approccio che le persone comuni hanno ai temi internazionali, dove appunto la crisi libica ha una sua rilevanza per i riflessi che percepiamo avrà sulla nostra economia, mentre le altre crisi del continente africano sono sentite come problema lontano, da delegare a missionari e ong.


Verrebbe poi da aggiungere l'amara considerazione che i diritti pesano più o meno in relazione alla potenza degli eserciti coinvolti e della posizione del bullo e dei suoi amici nella assemblea delle Nazioni Unite.

Ma temo che questa discussione non porti troppo lontano nella soluzione dei problemi: può aiutare a sentirsi dalla parte giusta, dalla parte cioè di quelli che difendono sempre il debole dall'oppressore, posizione moralmente alta e anche gratificante, sopratutto se ci sono stelle e le strisce che ci aiutano a ricordarci antiche battaglie, ma rimane irrisolta la questione di fondo: cosa fare quando ci si trova a poche ore dalla battaglia finale?

E' oggettivamente impossibile scegliere fra il massacro buono e quello cattivo, fra il bombardamento efferato e quello "umanitario". Fra il rimorso per aver sbagliato a non fare e quello di aver fatto ed aver sbagliato, e tuttavia occorre farlo, perché la neutralità non è sempre una virtù, sopratutto quando è indifferenza.

E non aiutano le accuse di doppi standard, perché non si tratta oggi di valutare la moralità astratta dell'intervento, ma stabilire se sia necessario o no, se siano praticabili oggi altre strade oppure no. E per questa analisi non serve dire che si sarebbe potuto fare l'altro ieri, perché ciò che non è stato fatto o che è stato fatto male rientrerà nella valutazione che dovremo dare domani dei nostri leader, ma oggi e adesso e in quel contesto specifico la domanda è cosa fare.

Non servono le accuse dei doppi standard perché il tema di oggi non è decidere se Usa, Russia, Francia o Cina siano buone o cattive, ma come fare in modo che in questa o quella crisi si blocchi l'escalation verso il peggio, sapendo che i corposi interessi in campo avranno un loro peso.

Insomma la nostra abilità non è data dalla capacità di svelare quello che tutti sanno, ovvero che il principale motore della politica internazionale è l'interesse, ma capire come fare a rallentare quel motore quando alimenta la repressione, e favorirlo quando la blocca.

A Bengasi, come a Manama come a Sanaa

21.3.11

L'energia del futuro

Personalmente penso che il nucleare resterà ancora per molto tempo fra noi, sopratutto perché ci sono paesi che hanno una filiera nucleare che glielo impone.

Certamente questi paesi rivedranno, come sempre si fa in queste occasioni, le procedure di sicurezza per adeguarle ad affrontare anche circostanze quali quelle emerse in Giappone. E mi immagino che questo produrrà anche incrementi di costi. Non sono così sicuro infatti che le assicurazioni non ne approfittino per ritoccare i coefficenti di rischio e premi conseguenti.

Nei paesi non nucleari invece ritengo che il nucleare si svilupperà solo laddove la sfera pubblica è meno organizzata. Dove invece questa è attiva e composita sono abbastanza certo che qualsiasi intervento tecnologico dell'impatto del nucleare farà fatica a svilupparsi.

Non a caso dopo l'incidente di Three mile island la costruzione di nuove centrali rallentò significativamente negli USA, nonostante il peso dell'industria nucleare da quelle parti, e nonostante la fame di energia di quel paese.

Inoltre l'incidente giapponese influirà ulteriormente a ravvivare un dibattito che andrà ben oltre alla semplice discussione sulla sicurezza.

Le opinioni pubbliche in questi giorni infatti non sono esposte solo al tema dei criteri costruttivi delle centrali, dove ancora una volta la cifra della sicurezza non è data dal componente più sofisticato ma da quello più ordinario (in Giappone la pompa diesel bloccata dallo tsunami), ma sopratutto al riassunto di tutte le questioni connesse alla tecnologia, di cui il tema delle scorie e del decomissioning sono una componente rilevante.

Non è infatti molto alettante l'idea di un impegno (anche economico) della durata di migliai di anni per le scorie e di oltre 100 anni per le centrali smantellate, come ipotizza la Corte dei Conti del Regno Unito.
E' vero che i contratti di gestione degli impianti prevedono che i costi per lo smaltimento siano previsti in bolletta, ma siamo certi che pensino a 100 anni? Ed il costo di non aver pezzi di territorio disponibile? Ed in Italia ultimamente il tema dello smaltimento dei rifiuti ha valenze tutte particolari.

Poi ci sono gli aspetti legati allo sviluppo di nuove fonti. Nel corso degli 8 anni necessari ad iniziare la produzione di un impianto sono previste le seguenti cose:

  • avvicinamento al 2020, termine entro cui il governo USA intende avviare la sostituzione dei mezzi pubblici diesel con mezzi a celle di combustibile. Un obiettivo ambizioso ma che secondo la loro road map dovrebbe portare alla eliminazione, con l'estensione al trasporto privato completata nel corso dei 20 anni successivi, del soggetto che consuma 2/3 del petrolio.


  • potrebbe essere il classico annuncio finalizzato ad attirare venture capital, ma magari c'è qualche cosa di serio in questo articolo che sostanzialmente annuncia un salto tecnologico in grado di introdurre l'idrogeno all'interno della esistente struttura distributiva e con modifiche limitate anche ai modelli di auto esistenti. Ovviamente se son rose si vedreanno, e questo potrebbe accadere proprio mentre ancora le centrali saranno in via di costruzione, magari scontrandosi con l'ennesimo ritardo e o incremento di costi (accade a tutte le latitudini) nella costruzione.


  • ma anche il solare non sta fermo, e nel corso degli ultimi anni ogni tanto salta fuori qualche nuova promessa di abbattimento di costi o maggiore facilità d'uso. Anche in questo caso vale il principio dell'annuncio propedeutico alla raccolta fondi, ma lecito pensare che gli 8 anni della nostra centrale potrebbero scadere con un potente ulteriore competitore sotto forma di pannello spray come quello descritto qualche tempo fa da Repubblica, di cui l'azienda produttrice annuncia la produzione entro 5 anni. Certo rimane la questione della continuità, ma di quanto si abbatterà la domanda se ad esempio tutti gli edifici pubblici del paese fossero dotati di questi pannelli di nuova generazione? ed i privati siamo certi che starebbero fermi? 
Insomma ho il sospetto e la speranza che da qui a quando potrebbe inaugurarsi la prima centrale del post Fukushima il contesto energetico mondiale sarà radicalmente cambiato.

20.3.11

20 Marzo 2011

Ipossibile scegliere fra il massacro buono e quello cattivo, fra il bombardamento efferato e quello "umanitario". Fra il rimorso per aver sbagliato a non fare e quello di aver fatto ed aver sbagliato.

15.3.11

Il dirigibile giapponese


Negli anni trenta una delle più promettenti e comode tecnologie di trasporto aereonautico fu abbandonata in seguito ad un disastro che fece molte vittime, anche se  sicuramente quel 6 maggio del 1937, quando bruciò il LZ 129 Hidemburg, c'era qualche statistica disponibile a dimostrare la letalità maggiore di qualche altra teconologia.

Ma non si parlò più di dirigibili perché l'insieme degli elementi caratterizzanti quella tecnologia al momento, non riuscivano a dare garanzie di sicurezza sufficenti ai suoi utenti.
Non si parlò più di dirigibili perché i costi conseguenti alle necessità di maggiore sicurezza provocate da quell'incidente ne riducevano i vantaggi.

Non si parlò più di dirigibili perché la tecnologia alternativa, l'aereoplano, stava facendo progressi enormi, e di li a poco, grazie anche ahimé alla guerra, avrebbe soppiantato alla grande il dirigibile.

Tutto questo per dire che non si tratta di emozione, ma di prevedere che dopo il disastro in una delle centrali probabilmente meglio costruite al mondo si verificheranno le seguenti condizioni:

  • Gli abitanti delle località dove sono situate le centrali avranno molte più perplessità del passato, e gli abitanti delle località dove sono previsti i nuovi siti anche, e questo è un costo politico.
  • I costi di realizzazione saranno presumiblmente crescenti, perché è intuibile che l'Agenzia per l'energia nucleare rivedrà le sue tabelle relative ai rischi con nuove prescrizioni, perché l'unica cosa certa è che le conseguenze di quella modestissima aleatorietà trascurata possono essere gravissime.  
  • I costi di gestione cresceranno pure, mi immagino ad esempio che le compagnie assicurative rialzeranno i loro coefficenti di rischio.  
  • I costi di gestione del ciclo completo (da costruzione a decomissioning a smaltimento delle scorie) cresceranno, perché è inevitabile che maggiori saranno le garanzie chieste dai cittadini.

Le teconlogie alternative, come nell'esempio dell'aereo di cui sopra, potrebbero su quest'onda trovare qualche ulteriore impulso. 

Rispetto le posizioni di chi sostiene che sia possibile conciliare sicurezza e atomo, perché potrebbe essere vero, penso tuttavia che nella storia il possibile si è sempre scontrato con un'altra domanda:"ma considerate tutte le variabili, conviene?".

14.3.11

Il terremoto e le emozioni

In questi giorni c'è chi parla del fatto che non bisogna farsi prendere dalle emozioni del momento nell'affrontare l'argomento del nucleare.

Per quel che mi riguarda la mia sfera delle emozioni è turbata dalle immagini delle devastazioni portate dallo tsunami, sono turbato dall'amara statistica dei morti e dalle storie dei sopravvissuti che raccontano di come l'onda abbia travolto la loro vita, portando via gli affetti più cari, le cose faticosamente costruite nel tempo, le ipotesi di futuro.

Poi c'è la sfera razionale. Quella che mi fa notare come nel mezzo di un cataclisma, le autorità debbono tenere d'occhio anche il comportamento delle loro centrali atomiche, perché la sicurezza con cui erano state progettate si è rivelata di poco meno sicura del necessario.

E quel poco fa preoccupare.

Perché l'atomo non è un soggetto facile da trattare, e se vuole può fare danni , tanti, ed in un area estesa, molti di più di un treno di notte nel mezzo di Viareggio, o di una centrale per la produzione della diossina a pochi passi da una città, per quanto devastante possano essere la contabilità di questi.

E non è un caso se chi lavora con l'atomo adotta protocolli di sicurezza ben più elevati di quelli presenti in qualsiasi altra impresa umana.

Perché non bisogna correre rischi, perché la circostanza che le probabilità di un incidente sia bassissima, non rende meno devastanti le conseguenze di quell'incidente.

Ed allora la razionalità vuole che si concluda che verificato come gli elevatissimi requisiti di sicurezza si siano mostrati appena di poco inadeguati ad un evento eccezionale, occorrerà esigere che questi requisiti siano ancora più stringenti, perché non possiamo correre il rischio.

Ed allora la razionalità si chiede: ma se la costruzione di una centrale è oggi una delle imprese civili in assoluto più costose messe in piedi dall'uomo, appunto per soddisfare requisiti di sicurezza, di quanto diverranno più costose dopo che abbiamo sperimentalmente verificato come questi requisiti in Giappone non siano stati sufficienti? E converrà ancora così tanto al cittadino l'energia prodotta dall'atomo?

Sono domande legittime, e se ce le poniamo oggi è perché ahimé quello che alcuni filonuclearisti scrivono sprezzantemente "ragionare sull'onda delle emozioni" mi pare sia invece  riflettere deducendo dalla amara  cronaca dei fatti.

7.3.11

La Libia è vicina

16 anni fa sull'Unità Adriano Sofri scrisse: "Una sinistra che stia dalla parte del pronto soccorso, del diritto e della libertà, dovrebbe incatenarsi nelle piazze, non per accettare, ma per rivendicare l'impiego della forza Onu ­ e Nato ­ contro le bande serbo-bosniache, a difesa dei cittadini bosniaci e della Repubblica di Bosnia-Erzegovina."

Una posizione chiara e che riassumeva bene il pensiero di molti che in quei mesi stavano assistendo alla carneficina nei Balcani ,introducendo nella discussione politica di quegli anni un tema che era un tabù per una parte significativa della sinistra italiana: il tema della "guerra giusta", con l'aggiunta che dalla parte giusta doveva starci la NATO di cui solo quindici anni prima molti chiedevano, Sofri in testa, la chiusura delle basi in Italia.

In realtà Sofri presentava alla discussione italiana un tema che oramai da qualche tempo assillava chi guardava con appena un po' di compassione alle tragedie che si stavano svolgendo al di la dall'Adriatico, o in Africa, o in qualche altra disperata parte del mondo.

Il tema della guerra per nobili fini: la guerra umanitaria. E' un dilemma che data lontano, come racconta il giornalista  David Rieff  nel suo "A Bed for the Night: Humanitarianism in Crisis", che gli operatori umanitari si ponevano forse sin dai tempi della secessione del Biafra del 1967, cui poi sono seguiti per citare i casi più noti Somalia, Rwanda, ed appunto i Balcani.

Il dilemma se stare a guardare o intervenire, sapendo che in ambedue i casi è possibile essere parte più del problema che della soluzione.

Per non parlare del fatto che realpolitik ed interessi materiali fanno, di ogni potenziale "catastrofe umanitaria" (per usare il linguaggio delle Nazioni Unite), un caso a se, in ragione di risorse, alleanze, e vicinanza alle nostre frontiere.

Per cui palpitiamo per Sarajevo o Tripoli e seguiamo più distratti le carneficine in Cecenia.

Ma depurati di tutti gli interessi meno nobili, cosa chiedere al nostro governo? E' la domanda che ancora una volta ci poniamo in questi giorni in cui non sappiamo se abbiamo davanti la prospettiva di una guerra civile in Libia o se stiamo per assistere ad una repressione nel sangue della insurrezione popolare dei giorni scorsi. Ed allora dobbiamo anche noi riprendere le parole di Sofri di qualche anno fa adattandole al contesto?

Purtroppo non ho certezze anzi, e sopratutto mi pare che ancora una volta il tema sia posto male. Davvero la decisione o meno dell'intervento  la dobbiamo prendere sulla base delle nostre valutazioni in merito alla crisi? Mi ha colpito molto una trasmissione di qualche giorno fa su Radiopopolare in cui si chiedeva agli ascoltatori provenienti da quei paese se a loro avviso fosse un bene l'intervento Nato di cui si stava iniziando a parlare in quelle ore. La quasi totalità delle risposte era negativa. Da chi diceva che i libici ce l'avrebbero fatta a trovare una soluzione magari portando vittoriosamente a termine l'insurrezione, a chi auspicava un intervento della lega araba o della Turchia, la maggioranza delle risposte sostanzialmente diceva che l'intervento Nato sarebbe stato appunto parte del problema più che una soluzione.

Certo si trattava solo di un campione di ascoltatori e neppure troppo rappresentativo, ma anche le opinioni espresse in queste settimane da molti commentatori del mondo arabo vanno nella medesima direzione.

E se la domanda fosse mal posta? se il tema non è se intervenire o no, ma scegliersi gli interlocutori più rappresentativi di quei paesi ed individuare la strategia che quegl'interlocutori ritengono più adatta ad una soluzione della crisi, magari quella che comporta meno vittime?

Insomma considerare la Libia non l'ulteriore palcoscenico su cui esercitare ancora una volta il copione un po' trito dell'"arrivano i nostri", ma un paese che comunque vadano le cose dovrà avere una classe dirigente capace di rappresentare le aspirazioni del suo popolo, ed allora è bene che sia questa classe dirigente ad orientare sin da ora le nostre azioni.

A di la di questo approccio vedo solo indignazione a buon mercato e tanto interventismo interessato.

4.3.11

L'invasione

A proposito di Profughi, rifugiati e lavoratori migranti.  Oggi Laura Boldrini scrive "Lavoratori egiziani, tunisini ma anche bengalesi, cinesi, indiani, tutti con l’obiettivo di lasciare il paese in preda alla violenza e di ritornare a casa... Nessuno di loro ha pensato lontanamente di attraversare il mediterraneo per giungere in Italia."

2.3.11

La carovana di Gheddafi

Il due Febbraio del 2003 Gheddafi partecipò ad Addis Abeba alla settima sessione ordinaria della struttura  dei capi di stato e di governo dedicata alla prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti, che la neonata Unione Africana aveva ereditato dalla presistente organizzazione per l'unità africana.

Era la prima riunione successiva alla trasformazione dell'organizzazione  e tutti i presenti volevano probabilmente dare il segno che le cose anche per il continente africano stavano cambiando. 

E con un ordine del giorno che prevedeva la discussione degli sviluppo positivi in Burundi, la missione di pace Ecowas in Costa, d'Avorio, i problemi nella repubblica centro africana, così come le crisi in corso in Madadascar e Comore, e le divergenze di vedute con il consiglio di sicurezza rispetto alle soluzioni proposte per la Liberia, i molti capi di stato convenuti ebbero di che discutere.

Al termine della riunione Gheddafi prese la sua carovana di 4x4 e inizio un viaggio via terra di oltre 1500 km su strade spesso impossibili. Prima da Addis Abeba fino a Gibuti via Dire Dawa, poi da Gibuti ad Assab e di li a Massawa e poi Asmara.

Fu un viaggio dal forte significato simbolico, ma dai scarsi risultati pratici. Alcune strade erano poco più che piste, come il collegamento fra Assab e Gibuti, altre come la lunga litoranea che portava da Assab a Massawa, era ancora in costruzione, e lo sarebbe rimasta ancora a lungo dopo il passaggio della carovana del colonnello.

Il confine fra Gibuti ed Eritrea poi era destinato di li a qualche anno ad essere chiuso dopo alcune violente scaramuccie di confine. Per non parlare del fatto che un altro confine, questo non attraversato dalla carovana, quello fra Etiopia ed Eritrea, era oramai chiuso dal 1998 e ad oggi le cose non sono cambiate.

Nel corso del suo passaggio Gheddafi incontrò il solito mix di amministratori locali, cittadinanza ed autorità varie che sempre sono presenti in queste occasioni, e a tutti promise investimenti, interventi e l'assistenza dalle sue capaci tasche.

Al suo arrivo ad Asmara la città fu bloccata per qualche ora, con la via principale che taglia in due la città, e su cui doveva transitare il leader libico, bloccata dalla polizia e dalla siepe di cittadini in attesa di veder passare colui di cui la sera prima avevano visto le immagini in Tv mentre fuoriusciva di mezzo busto dal tetto apribile della 4x4, e dispensava sorrisi e occhiate rassicuranti a tutti.

Quel giorno faticai non poco per tornarmene in ufficio: ero stato ad una riunione da una parte della città e fra me ed la sede c'erano le decine di auto del corteo di Gheddafi, e poi le auto della sicurezza, e poi l'esercito e poi, e poi.

Ricordo i commenti di quei giorni, e pareva che fosse arrivato lo zio ricco che aiuterà la famiglia a risollevarsi dalla crisi.

Come detto, di quel passaggio negli anni successivi passati sull'altopiano asmarino rimase ben poco: forse le storie del cammello che si dice il presidente eritreo avesse regalato al leader della rivoluzione, e che qualcuno assicurava fosse stato imbarcato qualche tempo dopo su un aereo mandato dalla Libia appositamente per ritirare il dono.

E degli investimenti?... non so se siano mai arrivati quelli che si diceva fossero stati promessi per l'asfaltatura della litoranea Assab-Massawa, ne so se presidente eritreo e leader libico davvero avessero mai parlato nei loro colloqui della raffineria di Assab, costruita per servire le necessità dell'Etiopia e inattiva dalla guerra, troppo lontana da Asmara, un mercato comunque troppo piccolo e con troppi km di straddaccia che anche se resi più morbidi negli anni, comunque non giustificano la rimessa in moto degli impianti.

Per un attimo al popolo assiepato sul viale della liberazione era apparso il deux ex machina, e così deve essere sembrato in altre parti d'Africa mentre investiva i proventi del petrolio nel sogno degli Stati Uniti d'Africa in cui farsi incoronare re dei re .

Oggi i molti punti di tensione del continente, i confini chiusi fra stati, quando l'assenza stessa degli stati, sono li a ricordarci che non esistono soluzioni facili a problemi difficili, ne nessun leader è da considerare l'uomo della provvidenza, a dispetto delle sue smisurate riserve petrolifere.